Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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Alberto

Questa lettera fu spedita nel dicembre del 1921. Quasi nello stesso istante in cui Sciarra sigillava la busta, il piroscafo Re Vittorio ormeggiava nel porto di Genova.

Come la gemella Regina Elena , era stato costruito nel 1908 e aveva una stazza lorda di circa ottomila tonnellate. I due fumaioli neri con una grande banda bianca — il nero e il bianco erano i colori della Navigazione Generale Italiana — erano disposti tra due alberi in legno sui quali si trovavano le antenne radio e le luci di via.

Durante il periodo bellico la nave era stata adibita al trasporto truppe e aveva avuto fortuna migliore della gemella, affondata dal siluro di un U-Boot tedesco nel 1918.

Riarmata e adibita al trasporto passeggeri per e dalle Americhe, la Re Vittorio poteva alloggiare un centinaio di passeggeri in prima classe, più del doppio in seconda e milleduecento in terza.

Ora, dopo aver fatto scalo a Trieste e a Napoli, si era fermata a Genova, prima di solcare l’Atlantico con destinazione New Orleans.

Come faceva spesso, Sciarra si recò a bordo della nave e trascorse mezz’ora in piacevole compagnia del comandante, un simpatico ligure con un paio di candidi baffi da tricheco.

«Una cortesia, generale Sciarra», disse il comandante mentre stavano per congedarsi, «assieme alle provviste di bordo e a quant’altro troverete nella lista, il mio direttore di macchina insiste perché gli venga fornito un lubrificante speciale, fondamentale per il funzionamento delle sue diavolerie a vapore. Sono certo che soltanto la Sciarra della Volta sia in grado di accontentare le bizzarre richieste del mio ufficiale. Pare che senza quell’ingrassante la Re Vittorio rischi di restare in mezzo all’oceano con entrambi i motori in avaria.»

«Non preoccupatevi, comandante. Col vostro permesso vorrei raggiungere il vostro sottoposto in sala macchine per farmi spiegare da lui di che cosa abbisogna.»

Sciarra scese a passo veloce nel ventre della nave, lasciandosi alle spalle il lusso dei ponti superiori.

La sala macchine di un transatlantico si avvicina alla visione comune di un girone infernale. Gigantesche caldaie di ghisa spalancano le loro fauci, pronte a ingoiare le tonnellate di carbone che viene immesso da uomini seminudi e coperti da uno spesso strato di polvere nera. Tutto intorno, tra rumori assordanti e sbuffi di vapore, grosse bielle d’acciaio paiono testimoniare l’esistenza del moto perpetuo. Questo territorio a sé stante, sconosciuto a chi passeggia sui ponti e si riscalda alla luce del sole, è un mondo che non può fermarsi, nemmeno durante la più feroce delle tempeste: senza la spinta delle eliche, anche il più grande transatlantico sarebbe sopraffatto dalle onde oceaniche.

Sciarra rimase a osservare gli uomini alle prese con manometri e caldaie, quindi vide il direttore di macchina.

Stava andando verso di lui quando, improvvisamente, la sua mente venne percorsa da un lampo e la memoria lo spinse a ritroso nel tempo. Fu un attimo, ma Sciarra era certo di aver già visto l’assistente di macchina che gli era appena passato davanti, per quanto la fuliggine lo rendesse pressoché irriconoscibile.

Turbato dall’incontro, chiese al primo ufficiale come si chiamasse l’uomo.

«Chi, quello? Si chiama Olt, Arisztid Olt. È un ungherese e, se posso essere sincero con voi, signor Sciarra, non sono molto soddisfatto di lui. C’è di buono che parla poco, ha detto a un sottufficiale di essere un attore e che probabilmente si fermerà in America in cerca di fortuna… ma se non mi inganno, vista la sua scarsa voglia di lavorare, credo che di fortuna non ne incontrerà molta.»

«Olt, Arisztid Olt…» ripeté Alberto Sciarra tra sé.

Nel quartiere di Carignano due bambini giocavano al più bello dei giochi per i piccoli e al più brutto per i grandi. Sciarra superò i due piccoli guerrieri armati di fucili intagliati nel legno. Il pensiero del generale corse alla guerra, ai molti conti che questa aveva lasciato in sospeso. Improvvisamente Sciarra ricordò: ecco dove aveva già visto quell’uomo!

L’ultima volta che lo aveva incontrato, qualche anno prima, si trovavano all’interno di un castello in Romania, e colui che adesso si faceva chiamare Olt aveva cercato di fare la pelle a lui e al tenente Minhea Petru. Allora si chiamava Blasko, tenente Béla Blasko, dell’esercito ungherese.

Alberto Sciarra non entrò neppure in casa, fece dietrofront scendendo le scale di corsa. Quando giunse all’imboccatura del porto il piroscafo era ormai lontano. E con lui Béla Blasko.

47

Romania, 1386

«Questa è la mia storia, Mircea, figlio mio…» La donna mostrava sul volto pallido e scarno i segni dell’età e della malattia. Ma i lucenti occhi color cobalto brillavano ancora di intelligenza e di vitalità. «Promettimi di tramandarla a chi verrà dopo di te, completandola con le vicende della tua esistenza che, ne sono certa, sarà radiosa e ricca di soddisfazioni. E fa’ in modo che possa servire da sprone a chi ti seguirà. Questo perché non si perdano le origini della nostra stirpe e perché il prezioso talismano che oggi ti consegno mantenga negli anni il suo potere. Esso è appartenuto al Re dei Re: ricorda, solo chi è giusto potrà godere dei benefici del talismano. Comportati quindi secondo coscienza e con rettitudine. Rispetta gli amici, sii capace di amare e difendi la tua gente. Che Dio sia con te, Mircea, principe di Valacchia.»

Celeste ben conosceva la tempra di Mircea, il suo primogenito: era un valoroso e certo il suo nome sarebbe rimasto scritto nelle pagine della storia della loro nazione. La Valacchia era divenuta la patria di Celeste, l’unico posto dal quale non era stata costretta a fuggire, il luogo in cui aveva abbandonato definitivamente il suo travestimento ed era diventata donna, moglie e madre felice. I ricordi di una vita piena e intensa le passarono davanti agli occhi: i figli che giocavano nel prato dinanzi al castello di Vladislav. Le loro prime cavalcate, l’ansia materna che venissero disarcionati, le fatiche e la soddisfazione di crescerli forti e sani. Le sembrava che tutto fosse accaduto in un attimo, e non appena Celeste si apprestava a godere una meritata vecchiaia assieme all’uomo che mai aveva smesso di amare, erano arrivati i primi nipoti, figli di Mircea.

Celeste si era ritrovata a rincorrerli per ore, mentre questi muovevano i primi incerti passi, sdraiandosi la sera accanto a loro per raccontare le meravigliose avventure di due nemici che si erano fronteggiati per tutta la vita per mare e per terra.

Erano storie epiche, le stesse che, prima che ai nipoti, aveva narrato ai figli. Ma non erano leggende: tutti sapevano che si trattava del racconto della sua vita, un marchio di coraggio che sarebbe rimasto impresso nella tempra dei discendenti di Celeste.

Mircea e sua madre erano legati da un rapporto che trascendeva dai consueti legami tra genitori e figli.

Per il bambino Celeste era stata madre affettuosa, sicuro rifugio dalle ire paterne, maestra di vita; ma la sua dolcezza sapeva trasformarsi in severità quando vestiva i panni del più intransigente degli istruttori. Era lei che lo aveva cresciuto come un nobile guerriero, insegnandogli l’arte di combattere e le micidiali tecniche dei samurai, e Mircea era diventato preciso e rapido sia con le armi tradizionali che con la katana , la terribile spada dei nobili guerrieri.

Egli non poteva immaginare quanto sua madre si fosse imposta con la forza di essere severa e rigorosa: gli occhi del figlio — gli stessi occhi suoi e di suo padre, il grande Muqatil — quando si facevano imploranti avrebbero potuto ottenere da lei qualsiasi cosa.

Un sorriso sereno e soddisfatto si dipinse sul volto di Celeste, mentre il resto della famiglia entrava nella stanza in penombra: avrebbe lasciato una buona parte di sé sulla terra.

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