Chi aveva parlato era colui che alcuni tra i dipendenti chiamavano «Manina di legno». Un urlo di gioia risuonò nel capannone.
Anche Alberto Sciarra della Volta, «Manina di legno» per alcuni e «il Generale» per tutti, si concesse una pausa dalle sue quotidiane operazioni. La guerra, anche per chi restava lontano dal fronte, significava enorme mole di lavoro, alla quale non corrispondeva alcuna garanzia di guadagno: tutto poteva succedere ed era pressoché impossibile assicurare qualsiasi carico. Gli U-Boot tedeschi erano in agguato nel Mediterraneo come branchi di lupi famelici. Una nave dispersa poteva significare il fallimento. Per fortuna la rinomata agenzia marittima Sciarra della Volta era sempre riuscita a evitare gravi perdite.
La felicità che Alberto provava in quel momento era enorme, gli pareva di poter toccare il cielo con un dito. Un piroscafo battente bandiera inglese, ormeggiato a poca distanza dalla banchina, emise un primo, lungo fischio di sirena. E in risposta a quel segnale, in breve tutte le navi presero a suonare. Sciarra rimase a guardare quello spettacolo, assaporando il gusto della pace e della libertà.
Il generale Sciarra della Volta era stato congedato dall’esercito in seguito al suo ferimento e all’amputazione della mano. Da allora si era dedicato anima e corpo al lavoro: quello era l’unico sistema con cui poteva essere d’appoggio alla sua patria.
Il piroscafo inglese, pronto a salpare alle sue spalle, emise un altro lungo suono. Alberto non ci pensò due volte: conosceva il comandante della nave dal momento che la sua agenzia aveva provveduto a effettuare le forniture di bordo. Salì lo scalandrone di corsa, senza voltarsi indietro e senza pensarci troppo: i suoi collaboratori, per la prima volta da qualche anno, si sarebbero dovuti arrangiare da soli. Entro cinque giorni Alberto Sciarra sarebbe arrivato a Londra.
Il treno ospedale si fermò sotto le ampie volte di Victoria Station nel mezzo della notte. Fuori dalla stazione c’erano ambulanze e carri militari con la croce rossa in campo bianco dipinta sulle fiancate o sui teloni di copertura.
Le operazioni di sbarco iniziarono immediatamente, tra lo strazio dei militari feriti e gli sguardi compassionevoli dei pochi presenti. Uno di questi, benché fosse mutilato della mano sinistra, vedendo che c’era bisogno di trasportare le lettighe giù dal convoglio si diede da fare per essere d’aiuto.
Kimberly scese dal vagone: per gli addetti della Croce Rossa la fine della guerra aveva coinciso con il peggioramento delle loro già impossibili condizioni di lavoro. C’erano malati da rimpatriare, ospedali da smobilitare, morti da seppellire, famiglie da consolare. Poco dopo il congedo di Alberto, Kimberly era stata destinata al fronte europeo: l’occupazione di infermiera era una copertura alla sua reale attività di agente del controspionaggio, ma ciò non la dispensava affatto dallo svolgere le sue mansioni di crocerossina. E quando erano cessate le ostilità, la giovane aveva preferito trattenersi al fronte per essere utile là dove più c’era bisogno di aiuto. Scriveva una lettera ogni settimana all’unico uomo al quale si fosse mai concessa, ricevendo di volta in volta la sua puntuale risposta. Ma per quanto tempo sarebbe andato avanti il loro amore? La distanza che li separava avrebbe potuto allontanare i loro cuori. Sino al punto di compromettere anche il più sincero dei sentimenti. Era meglio che non si facesse illusioni sul destino del suo legame con l’ufficiale italiano: sarebbe finito presto. Molto presto. Lei avrebbe sofferto, ma era una donna di carattere…
«Signor colonnello, vi prego!»
Stava camminando sfinita lungo la banchina della stazione, quando una voce dietro le sue spalle la costrinse a voltarsi. «Signor colonnello, sono un soldato di montagna che è sceso con un dirigibile rubato al nemico su una città in guerra. Sono stato spedito nel mezzo di un deserto infuocato che ho attraversato a dorso di cammello. In tutto questo non ho mai smesso di amarvi. Volete sposarmi, colonnello Kimberly Hadwin?»
Gli occhi di Kimberly si riempirono di lacrime di gioia, mentre si girava verso il punto da cui proveniva la voce. Non vide nulla, tranne le dense nubi di vapore di una locomotiva che stava mettendosi in moto, ma le sue braccia si aprirono pronte ad accogliere colui che sarebbe sbucato dalla nebbia. Quando riconobbe il sorriso di Sciarra, l’uomo era già stretto nel suo abbraccio appassionato.
Kimber e Alberto non volevano rassegnarsi al fatto di non riuscire ad avere dei figli. Ci avevano provato e riprovato, si erano rivolti a molti specialisti che non erano però riusciti a risolvere il problema.
Genova aveva accolto la moglie inglese del potente agente marittimo mostrando la consueta indifferenza, velata di curiosità, con cui le piccole città accolgono gli stranieri. Ma a Kimber erano stati sufficienti pochi mesi di matrimonio per capire che non avrebbe più potuto fare a meno del sole del Mediterraneo e, soprattutto, di avere Alberto accanto. C’erano stati momenti difficili, ma insieme erano riusciti a superare qualsiasi ostacolo con lo stesso entusiasmo con cui avevano affrontato le difficoltà della guerra. Anche la dolorosa mancanza di figli non era riuscita a minare l’affiatamento di quella che tutti consideravano una coppia perfetta.
L’attività di Alberto era impegnativa e richiedeva la sua assidua presenza e una reperibilità pressoché costante, ma egli aveva sempre cercato di ritagliare del tempo per loro e dedicava a Kimber ogni istante libero dagli impegni di lavoro.
«Le navi non sanno leggere le lancette dell’orologio», ripeteva Alberto ogni volta che, chiamato dai suoi collaboratori, era costretto a correre al porto a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Dopo circa un anno di matrimonio Kimber aveva espresso il desiderio di essere d’aiuto in azienda: trascorrere le sue giornate tra merende di beneficenza e tè con pasticcini nel centralissimo caffè Mangini non le si addiceva per niente.
Alberto l’aveva accolta con l’intesa che, se fosse rimasta incinta, avrebbe lasciato il lavoro. Ma i figli non erano venuti e Kimber si era rivelata una pedina insostituibile in un’impresa che si andava espandendo a vista d’occhio.
Ormai, dei tempi della guerra era rimasto un lontano ricordo e ne parlavano raramente.
Ciò che non era andata perduta era la corrispondenza con Minhea che, a quanto scriveva, continuava la sua ricerca dell’Anello dei Re. Con Lawrence il rapporto epistolare si limitava invece agli auguri in occasione delle festività o a qualche telegramma o lettera di congratulazioni in occasione di nuovi riconoscimenti per il colonnello inglese. L’eroe d’Arabia aveva raggiunto posizioni di rilievo nelle gerarchie politiche: apparentemente osannato da tutti, sembrava lanciato verso la più fulgida delle carriere. Ma a un occhio esperto non sarebbe sfuggito che quella era l’arma con cui i politici sapevano confinare gli eroi scomodi perché troppo dotati di intelligenza e di ambizione: davano loro delle redini di paglia da tenere, pronti a disarcionarli alla prima occasione e a relegarli nell’oscurità.
Caro Thomas,
ho appreso dalla stampa dei vostri incontri con Winston Churchill per discutere la situazione mediorientale. Conoscendo voi e l’interesse che vi lega a quella tribolata regione, sono convinto che saprete indirizzare i leader del vostro paese verso la scelta più appropriata perché i valorosi popoli d’Arabia possano infine godere di pace e autonomia. Apprendo altresì dei difficili negoziati che state conducendo con re Hussein. Anche la stampa italiana ha dato grande risalto ai contenuti del trattato dell’Hegiaz, condotto in porto grazie al vostro intervento. Sono fiero e onorato di potermi vantare della vostra amicizia. Vogliate gradire i miei più sinceri e fraterni auguri di un indimenticabile Natale e di un prospero 1922. Con sincero affetto,
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