Una volta in camera Oswald si gettò sotto la doccia. Quindi, dopo essersi rivestito con i suoi variopinti abiti da adolescente, si affacciò alla finestra e rimase a osservare la strada sottostante. Le auto in coda pareva utilizzassero il clacson per farsi strada come fosse la benna di una ruspa. I cartelloni pubblicitari sotto i tigli del viale… i cartelloni…
Oswald lesse a fatica, ma non ci voleva un esperto in lingua turca per capire che il cartellone reclamizzava un incontro di calcio che si sarebbe tenuto proprio nel Giorno della Vittoria. Guardò l’orologio: era trascorsa un’ora da quando Sukru li aveva accompagnati in albergo. Si calò il cappellino da baseball sul capo e infilò la porta: non c’era tempo da perdere.
Cassandra Ziegler sedette sul letto. Si era avvolta nell’accappatoio e con una seconda salvietta asciugava le gocce d’acqua che le imperlavano il volto. In quell’istante suonò il telefono. Convinta si trattasse di Oswald, Cassandra rispose con un tono amichevole. La voce contraffatta e metallica all’altro capo della linea la fece rabbrividire.
«Una bella donna come lei dovrebbe trovare un cavaliere più aitante dell’ometto che l’accompagna, dottoressa Ziegler.»
«Chi parla?» chiese Cassandra, mentre il dubbio iniziale si trasformava in certezza.
«Quello che lei e Breil state cercando, bella signora. O forse sono io quello che sta cercando voi? Staremo a vedere. Lascia che venga con noi domani a divertirsi e a giocare; veglieremo su di lui. Mi auguro davvero di vederla presto, dottoressa Ziegler. Sono sicuro che avrà mie notizie. Un caro saluto a lei e al suo uomo in miniatura.»
Dagli appunti raccolti da Asher Breil
a Cortina d’Ampezzo, 1967
Il piccolo lago alpino era circondato da abeti secolari. Le conifere addolcivano con i loro profumi balsamici l’aria delle Dolomiti. Sul tavolino esterno del ristorante a Lago Scin, poco distante da Cortina, Sciarra della Volta raccontava con ordine gli episodi della sua vita, dimostrando una capacità narrativa degna di un romanziere di professione.
Il colonnello Thomas Edward Lawrence aveva voluto che, in segno di riconoscenza, i suoi cammellieri si schierassero e rendessero gli onori militari all’ufficiale italiano. Sciarra passò in rassegna quegli uomini dal volto segnato dal sole del deserto, quindi si arrestò davanti al colonnello inglese. Lawrence era in sella al suo cammello, un animale eccezionale come il suo padrone: fedele e resistente a ogni fatica. Sciarra guardò Thomas Edward Lawrence: sapeva con certezza che non si sarebbe mai dimenticato del periodo trascorso al suo fianco.
Il copricapo candido circondava il viso magro e scavato dell’inglese. Il mantello di lana scendeva quasi sino a coprire mezza coscia del cammello.
L’italiano estrasse la sciabola e l’alzò dinanzi al volto in segno di saluto. Lawrence rispose con il medesimo gesto, quindi parlò con voce ferma: «È stato un onore, Alberto, poter lavorare con voi. Spero che non ci perderemo di vista».
«Anche io lo spero, Thomas. E sono io a esservi grato per avermi insegnato tanto: ora, grazie a voi, la guerra in questa terra non mi è più sconosciuta e potrò affrontare la prossima missione con maggiore consapevolezza, sapendo che reclutare tribù pronte a ribellarsi ai turchi non è sempre impresa facile.»
«Ricordatevi, Alberto: quella che combattiamo noi nel deserto non è una vera e propria guerra. Ho cercato di spiegarlo ai nostri strateghi, ma per loro è impensabile che ci siano altri modi di combattere che non siano lo scontro aperto. Io la chiamo guerriglia: colpire e fuggire senza lasciare traccia. Sono convinto che questo sia il modo migliore di operare in questi territori. Ora però separiamoci: gli addii non si adattano a un soldato.»
Sciarra si allontanò, scortato da una decina di arabi: i pilastri sui quali avrebbe creato un contingente analogo a quello del colonnello Lawrence.
Erano trascorsi due mesi da quel saluto. L’attività di Sciarra non si era fermata un attimo. Aveva arruolato un migliaio di uomini, che ora erano accampati nei pressi di Deir el Balah, ove aveva sede il comando del corpo orientale delle truppe alleate. Il colonnello italiano si trovava invece pochi chilometri più a nord-est, in vista della città di Gaza.
L’altura di Sansone si eleva per circa duecento metri a picco sul mar Mediterraneo. Due pattugliatori inglesi sorvegliavano le coste, sfilando a moto lento appena al di fuori della portata dei cannoni turchi.
La collina bunker 164 si trovava lungo la linea del fronte: da lì venivano sferrati i continui attacchi alle guarnigioni turche arroccate all’interno di Gaza. La postazione era stata presa nel corso degli scontri dell’aprile 1917 e da allora era rimasta in mano alla centosessantesima brigata inglese.
Sciarra avrebbe dovuto penetrare nella città e cercare di fomentare una ribellione interna, grazie anche all’aiuto di alcuni capitribù fedeli alla causa inglese. Tutto era pronto per la sortita: il colonnello, travestito da arabo, sarebbe stato accompagnato da un suo uomo, cugino dello sceicco di Gaza. La notte era calma e senza luna. Sciarra chiuse il quaderno sul quale era solito annotare le sue sensazioni. Chiuse anche il Registro Militare, dove aveva trascritto, seguendo le direttive dello stato maggiore, ogni azione degna di nota.
Uscì nella notte d’Oriente. Respirò a pieni polmoni l’aria secca e fredda. In quell’istante scoppiò il finimondo.
L’artiglieria turca cominciò a bersagliare con tiri di grosso calibro la collinetta fortificata. Una granata scoppiò a poca distanza dal colonnello italiano, e Sciarra fu sbalzato in aria e scagliato a diversi metri di distanza. Forse perse anche i sensi, ma per pochi istanti. Non appena si riprese e le orecchie smisero di dolergli, sollevò verso il volto ferito la mano sinistra: era ridotta un ammasso di carni e ossa sanguinolente. Sedette in un angolo: stava perdendo molto sangue. Sganciò il laccio di cuoio dal calcio del revolver e lo usò come laccio emostatico. Quindi il buio calò di nuovo nella sua mente e lui si accasciò privo di sensi.
«Che ne dice se ritorniamo a piedi sino a Cortina, signor Breil?» chiese Sciarra, impugnando il bastone da passeggio in legno.
«Volentieri, generale. Se non è troppo pesante per lei.»
«Se dovessi nuotare forse mi troverei in difficoltà», disse l’italiano indicando il moncherino coperto da un guanto di pelle nero, «ma alla mia età una buona camminata è quello che ci vuole per mantenersi in forma. E mentre camminiamo, continuerò a raccontarle della mia vita, sempre che lei non sia stanco di ascoltarmi, signor Breil.»
«È impossibile stancarsi, generale.»
«La guerra è finita!» L’urlo girò di bocca in bocca. In pochi minuti l’intero porto di Genova assunse le sembianze di una nave sulla quale si stesse svolgendo una festa scatenata: la gente ballava e gridava tra le merci e i bancali pronti per essere caricati. Ogni attività venne sospesa per dare sfogo alla felicità irrefrenabile che era seguita al primo momento di incredulità.
Ma purtroppo gli assenti giustificati alla festa erano molti: gli italiani avevano perso seicentocinquantamila militari, i francesi un milione e trecentomila, l’impero britannico quasi un milione, oltre trecentomila la Romania. Quasi tre milioni erano i soldati caduti tra le fila della Triplice alleanza e dei suoi alleati. E tra i civili i morti erano stati più di sette milioni.
Quegli spettri avrebbero influenzato, in un modo o nell’altro, la storia del ventesimo secolo. Ma invece di servire da monito alle genti, mettendo in guardia il mondo sulle infamie della guerra, divennero pretesto per rivendicazioni e aspre vendette.
La voce amplificata dagli altoparlanti all’interno dei magazzini del cotone si diffuse sino agli angoli più reconditi della grande struttura a ridosso dei moli. «Siete tutti dispensati dalle operazioni di carico e scarico. Oggi, lunedì 4 novembre 1918, la guerra è finita. Che Dio benedica l’Italia vincitrice.»
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