Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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«Ma in una guerra come questa non ci sono solo le grandi battaglie: gli uomini del deserto conoscono tattiche più sottili, anche se meno plateali. L’attacco al treno sul quale viaggiavo pochi giorni fa mi ha fatto venire in mente una cosa…» disse Sciarra.

«Andate avanti, colonnello, e vediamo se ancora una volta i vostri pensieri corrispondono ai miei.»

«Se i predoni avessero danneggiato gravemente la linea, sarebbero occorsi giorni e giorni, forse mesi, per rendere di nuovo agibile l’unica via di collegamento terrestre tra Ismailia e Suez. Anche se in questo caso il canale, che corre parallelo alla ferrovia, avrebbe potuto in parte supplire al disagio. Se un nostro plotone di guastatori riuscisse a far saltare un tratto di strada ferrata in mano ai turchi, o un intero convoglio nel bel mezzo del deserto, sarebbe un grande successo. Un metro di binari vale più di mille cammelli nelle strategie che sto imparando a conoscere.»

«Sono sempre più contento di avervi al mio fianco, colonnello. È da tempo che sto pensando a un’azione del genere e credo anche di aver individuato la zona da colpire.»

Confrontarono ancora a lungo le loro opinioni: a un uomo intelligente e accorto come Lawrence non poteva certo sfuggire l’esperienza maturata dall’ufficiale italiano nel corso della difficile guerra di mina sulle Dolomiti.

Quando si congedarono, il sole al tramonto inondava di riflessi rosati la distesa immota del golfo di Aqaba. Presto le tenebre sarebbero giunte a mitigare l’arsura: il termometro nelle ore diurne arrivava a toccare punte di cinquanta gradi.

«A tra poco, colonnello Sciarra. Non dimenticatevi che il comandante dell’ Humbert ci aspetta per cena, e voi sapete quanto questi marinai tengano alla puntualità e all’etichetta.»

L’italiano risalì nella sua stanza. Come al solito l’attendente aveva disteso sul letto il cambio per la serata. Sciarra si accorse però che mancava un bottone alla giacca della divisa, la stessa che aveva indossato nel corso dell’attacco al treno. L’ufficiale uscì nel corridoio e bussò alla porta della stanza di Rocco. L’attendente aprì l’uscio solo dopo ripetuti colpi e non riuscì a nascondere un certo imbarazzo.

«Non preoccupatevi, Rocco, non mi scandalizzo certo nel vedere un uomo in mutande», disse Sciarra. Un odore acre e fastidioso proveniva dall’interno della camera. L’ufficiale pensò che si trattasse di effluvi che salivano dalla strada e non ci fece molto caso.

Pochi minuti più tardi Rocco riportò la divisa al suo superiore. «Scusatemi, signor colonnello, non mi ero accorto che mancasse un bottone.»

«Poco male, Rocco. Grazie, lasciatela pure sul letto.»

«Che cosa dice l’eroe d’Arabia, signore?»

«Nulla di nuovo. Sembra che ogni mia opinione sposi la sua e viceversa», rispose Sciarra, intento a radersi davanti al lavabo.

«Certo deve essere esaltante lavorare fianco a fianco con un eroe, signore. Promettetemi che nel corso della prima missione mi concederete di seguirvi.»

«Quasi certamente mi seguirete, soldato.»

«Ne sarei orgoglioso, signore. Una missione nel deserto al fianco vostro e del colonnello Lawrence. Quale sarà il nostro obiettivo?»

«Nulla è ancora deciso ed è prematuro parlarne», tagliò corto il colonnello, abituato a non scoprire le proprie carte. La riservatezza non era mai troppa in una terra dove dietro ogni duna di sabbia poteva nascondersi un traditore.

Il capitano Snagge comandava il pattugliatore Humbert. Era un marinaio giovane e pronto alla battuta, che tendeva sempre a vedere il risvolto positivo e comico di ogni evento. La sua nave, in origine, avrebbe dovuto pattugliare le coste brasiliane, infestate di pirati e di predoni. Le necessità del conflitto l’avevano invece dirottata verso il golfo di Aqaba, dove era stata destinata, tra l’altro, ad alloggio per i molti ufficiali inglesi presenti in città da quando questa era stata conquistata.

L’ottima cena si era protratta tra i cordiali scambi di battute dei tre ufficiali. Quando si trovarono sulla lancia che li avrebbe riportati a terra, Lawrence disse a Sciarra: «Nei prossimi giorni inizieremo a istruire gli arabi sull’uso di esplosivi e detonatori: ho richiesto l’ausilio di due istruttori. Dovrebbero giungere dal Cairo tra breve. Nel frattempo penso che voi e io dovremmo dedicarci ai dettagli del nostro piano: entro un mese dovremo essere pronti ad agire».

41

Pécs, Ungheria, 1357

L’ansa del Danubio era visibile dall’altura sulla quale i due uomini si trovavano. Il grande fiume correva lento, come lenti si erano susseguiti gli anni. Ma, alla fine, il tempo era stato capace di lenire il dolore che aveva soffocato il cuore del giovane musulmano.

Adil stava in piedi al centro della radura, la katana stretta nelle mani. Humarawa lo osservava con attenzione, e di tanto in tanto correggeva la postura del guerriero che aveva ormai assunto i modi e le movenze di un autentico samurai.

Il giapponese non aveva di che lamentarsi: Adil era il migliore degli allievi. Sempre più spesso Humarawa, e con lui i pochi che erano a conoscenza del segreto, si scordava che sotto le vesti di Adil si celava il corpo di una femmina.

L’identità della giovane figlia del Muqatil era stata tenuta nascosta a tutti: Campagnola era ancora vivo e pareva che i suoi informatori, malgrado il tempo trascorso, fossero ancora allettati dalla promessa di una lauta ricompensa in cambio di notizie sul figlio di Satana e sui due orientali che lo accompagnavano. Fortunatamente, l’avversione tra Venezia e il re Luigi I d’Ungheria e Polonia faceva sì che pochi veneziani oltrepassassero i confini ungheresi.

Ma se in Adil aveva trovato un allievo attento e meticoloso, ben altre difficoltà incontrava il samurai nell’istradare i due gemelli avuti da Rhoda e Wu all’arte delle armi: i due vivaci bambini, pressoché identici, non riuscivano proprio mai a trovare la concentrazione necessaria per dedicarsi alla dura disciplina che li avrebbe fatti diventare dei guerrieri.

Spesso a Humarawa toccava rimproverarli e lamentarsi col loro padre che, a quel punto, non risparmiava punizioni e sculaccioni. Tutto sommato, però, erano due simpatici bricconi, incapaci forse di apprendere le arti marziali, ma furbi e lesti come furetti, sempre pronti a spalleggiarsi a vicenda, e affascinanti con quegli occhi a mandorla su visi dai tratti europei. Po-Sin e Dewei sapevano farsi amare dai membri di quella strana famiglia composta da un ragazzo, una donna e due orientali che vivevano come eremiti, arroccati in una grande casa di campagna sulle colline di Mecsek, a poca distanza dalla antica città di Pécs, che i veneziani chiamavano Cinquechiese.

Adil, invece, si era sempre comportato molto bene e adesso il suo severo tutore raccoglieva i risultati dei suoi sforzi: l’allievo eseguiva alla perfezione i passi di una danza che si sarebbe trasformata in un balletto mortale per chiunque avesse tentato di sbarrargli il passo.

«Credo sia ormai tempo dell’investitura, Adil», disse Humarawa un giorno, quando l’ennesima esercitazione ebbe fine.

L’espressione di Adil era raggiante.

Wu e Rhoda li aspettavano in casa.

Humarawa aveva voluto che l’antico cerimoniale venisse rispettato: un sorriso si aprì sulle labbra del samurai. Non c’era malinconia nel suo sguardo segnato da piccole rughe che aumentavano con l’incedere degli anni: Humarawa, il più temuto tra i samurai, era stato un ottimo maestro.

Il giapponese aveva voluto che la formazione di Adil seguisse un programma molto rigoroso. Giunti al termine di ogni sessione, lo stesso Hito Humarawa si trasformava in severo esaminatore, così come erano soliti fare i maestri delle scuole di samurai o, a volte, i daymio — padroni assoluti di ogni prefettura — nella sua patria lontana.

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