«Soltanto tu riesci ad alterare il mio equilibrio, Oswald… accidenti!» disse tra sé Sara prima di tuffarsi nella trascrizione di quanto andava scoprendo sulla vita di un agente del Mossad in missione nella Romania di Ceausescu.
Trasse un profondo respiro, quasi volesse dare un colpo di spugna alla mente per sgombrarla da pensieri e sentimenti che avrebbero potuto indurla alla parzialità. O peggio, come diceva Oswald, a fantasticare. Quindi si mise al lavoro con la sensazione che, in breve, sarebbe stata travolta da una nuova e avvincente avventura.
Dal diario di Asher Breil, Bucarest, 1968.
Figlio mio, ho deciso di scrivere su questo quaderno i fatti più importanti di cui sono stato protagonista, e spero che, in un modo o nell’altro, i miei ricordi possano arrivare fino a te. Spesso, per una sorta di delirio di onnipotenza che pervade ognuno di noi, crediamo di essere testimoni di eventi ineguagliabili e di basilare importanza per la sopravvivenza della nostra civiltà. Detto questo, anche se forse a torto, io sono convinto di avere in qualche maniera partecipato ad accadimenti fondamentali per la comprensione degli ultimi decenni della nostra storia e credo di assistere all’operato di personaggi senza i quali ora il mondo non sarebbe al punto in cui si trova. A te il giudizio.
Ceausescu era rientrato il 17 agosto dal suo viaggio a Praga, in quell’estate piovosa del 1968. Il conducator aveva pubblicamente manifestato la solidarietà alla «primavera di Praga», sia nel corso del suo viaggio in Cecoslovacchia che al rientro in Romania.
I carri armati sovietici avevano invaso lo Stato governato da Alexander Dubcek il 20 agosto. Tutte le truppe delle nazioni allineate con il patto di Varsavia, fatta eccezione per l’esercito rumeno, avevano occupato il territorio cecoslovacco con un gran numero di soldati e mezzi corazzati.
Ricordo che il conducator aveva chiesto di incontrarmi un paio di giorni dopo l’invasione sovietica.
Mi ero trasferito a Bucarest quasi un anno prima. Nel corso dei primi mesi di permanenza là, ero riuscito a guadagnarmi una fetta della fiducia del leader rumeno: l’Istituto, così come gli addetti chiamavano il Mossad, aveva aperto un ufficio della banca svizzera da me rappresentata in Romania e, in breve, ero diventato il banchiere di fiducia di Nicolae Ceausescu. Intendo sottolineare la «porzione di fiducia»: ho sempre avuto la convinzione che il segretario generale sapesse bene quale fosse la mia reale occupazione. Ma mentre il fatto che militassi nel Mossad non gli causava preoccupazioni, la mia «copertura» gli era invece estremamente utile: attraverso l’ufficio della banca da me rappresentata, affluivano ingenti somme di denaro in Romania e, in direzione opposta, venivano istituiti depositi personali in Svizzera a nome di individui molto vicini a Ceausescu e a sua moglie Elena. Con quest’ultima il mio rapporto è sempre stato difficile, e non poteva essere altrimenti, visto il carattere freddo e severo della donna.
Questo reciproco esserci utili aveva fatto nascere tra me e il leader rumeno una sorta di complicità sfociata in un rapporto che definire d’amicizia mi sembra eccessivo. Potrei chiamarla una «confidenza intima» che lo spingeva ad aprirsi con me come faceva con pochi dei suoi collaboratori.
Un giorno mi mostrò un antico quaderno e me ne fece leggere le prime righe redatte a mano con una scrittura arcaica. Riconobbi subito, dal contenuto del testo, il libriccino: me ne aveva parlato un generale italiano, Sciarra della Volta, che avevo incontrato, per tutt’altra ragione, circa un anno prima a Cortina d’Ampezzo. In quel quaderno un settecentesco principe di Valacchia aveva descritto il luogo ove era stato nascosto un simbolo del nostro popolo. Quella fu la prima occasione in cui Ceausescu mi parlò dell’Anello dei Re.
«Nulla da fare, Oswald», disse Cassandra Ziegler scuotendo il capo, «pare non ci sia modo per risalire al computer che ha fornito gli impulsi satellitari al Predator. Il Giusto si è inserito su una rete telematica militare attraverso un semplice portale, facendo rimbalzare il segnale tra milioni di server sparsi ovunque nel mondo. Arrivato nella rete deve aver raggiunto la stanza dei bottoni — quella che dà accesso al satellite di controllo attraverso una linea Ku-Band — che era protetta da un solo codice d’accesso. A questo punto ha inserito un secondo codice, quello dell’aereo in volo sopra Washington, e ne ha preso il controllo. L’ufficiale che ci stava illustrando il funzionamento del Predator ci aveva appena spiegato che riuscirebbe a pilotarlo chiunque, fatta eccezione per le operazioni di decollo e atterraggio, che richiedono una maggiore capacità. Ma la cosa non interferiva in alcun modo con i piani del Giusto: l’aereo telecomandato è stato abbattuto dall’apparato di sicurezza un minuto dopo l’attentato e, per quanto riguarda il decollo, se ne era occupato il nostro ufficiale.»
«Già», aggiunse Deuville, «nel momento in cui, ad attentato ormai avvenuto, è scattato l’allarme e sono entrati in funzione i sistemi di difesa antiaerea della Casa Bianca, l’aereo è stato distrutto. Va tenuto presente che il Predator stava effettuando un volo governativo, e quindi autorizzato, e che il Trasponder, il sistema a impulsi che permette di riconoscere un velivolo come nemico o amico, ha correttamente identificato l’aeromobile come non pericoloso. Nessuna difesa era stata quindi allertata. Senza contare che, qualunque fosse stato il livello d’allarme, tutto si è svolto nell’arco di una manciata di secondi: un tempo comunque non sufficiente per respingere un’improvvisa minaccia. Ricordo che, pochi anni fa, l’autore di una bravata è riuscito ad atterrare con un Piper nel prato antistante la residenza del presidente.»
«I nostri computer», riprese Cassandra, «hanno effettuato un nuovo screening sui militari americani — e sottolineo che il campionamento è limitato a ‘militari americani’ — che, oltre a essere stati nella possibilità di raggiungere alcune delle località oggetto degli attentati del Giusto, si trovavano negli Stati Uniti in occasione del recente attacco alle donne musulmane davanti alla Casa Bianca. Ti prego di prendere con le dovute cautele questo dato, Oswald: non solo sono troppe le variabili, ma risulta anche materialmente impossibile controllare ogni alibi, stato di servizio, missione in corso. A ogni modo il numero si è ora ridotto a poco meno di milleseicento persone, ancora tante per svolgere indagini serie, anche perché le forze di cui disponiamo sono davvero scarse.»
«Posso avere una copia del tabulato, Cassandra?»
La donna annuì e un silenzio denso di apprensione calò nell’ufficio del direttore dell’FBI, Deuville: in quella stanza si trovavano tre dei più capaci investigatori di cui l’America potesse disporre e pareva fossero del tutto impotenti davanti alle azioni del Giusto.
Glakas osservò il display del cellulare: non vi lesse alcun nome tra quelli che erano memorizzati nella sua rubrica, né comparve il numero di telefono da cui proveniva la chiamata. Rispose cercando di non tradire l’affanno, ma era certo di sapere chi fosse il suo interlocutore.
Dall’altro capo della linea una voce metallica, palesemente contraffatta, disse: «Buongiorno, Glakas, in che senso dicevi di potermi essere utile?»
«Consegnati, Giusto, e ti prometto che…»
«Smettila con queste cazzate. Vorrei sapere che cosa intendevi con quelle parole.»
«Ti prometto che la corte…»
«Ti ho già detto di smetterla! Un pezzo grosso dell’intelligence non offre aiuto a una minaccia sociale quale io sono. Vuoi che ti dica io come potresti aiutarmi? Ho bisogno di esplosivo. Una ventina di chilogrammi di esplosivo ad alto potenziale. Ecco come potremmo esserci d’aiuto a vicenda: ricordi dove sei nato, non è vero? Ti ricordi come sei stato cacciato dalla tua isola dalla sera alla mattina? Io posso vendicare quello che hanno fatto a tua madre e alla tua famiglia. Ti lascio il tempo per pensarci, Glakas. Richiamerò presto.»
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