La mente di Cassandra non riusciva a fare a meno di pensare a quell’ultimo delirante messaggio. La voce dell’ufficiale dell’Air Force la riscosse, riportandola nella sala riservata dell’aeroporto Dulles di Washington in cui si trovava: «Il Predator è un sistema integrato, non semplicemente un aereo».
Nella saletta l’ufficiale dell’aviazione indicava con una bacchetta una lavagna luminosa sulla quale apparivano foto e schede tecniche che si riferivano al più recente gioiello della tecnologia aerea teleguidata. Il Predator, una sofisticata macchina volante priva di pilota, veniva utilizzato da molti corpi delle forze armate statunitensi. Si era anche rivelato di massima utilità per alcune missioni della CIA, soprattutto in Afghanistan e in Iraq. L’Agenzia aveva infatti in dotazione da qualche anno una decina di questi aerei e da allora erano state fatte molte pressioni affinché anche l’FBI potesse utilizzarli.
«Il Predator», continuò l’ufficiale, «è lungo quattordici metri e sei e il suo peso a vuoto è pari a quattrocentotrenta chilogrammi, che diventano oltre mille a pieno carico. Ogni aeromobile dispone di due telecamere tradizionali, una delle quali viene usata anche dall’operatore remoto per la guida dell’aereo. A bordo è installato inoltre un sistema a infrarossi per le riprese notturne. Un radar ad alta definizione completa la dotazione standard. L’aereo raggiunge quota settemilacinquecento metri e una velocità massima di duecentotrenta chilometri orari. Ha un raggio operativo di settecentoventi chilometri. Può essere aviotrasportato in ogni punto del globo terrestre e decollare su piste di poche decine di metri. È alimentato da un motore a quattro cilindri in lega leggera, originariamente impiegato per le motoslitte. Generalmente ogni squadra è composta da quattro aeromobili, una stazione mobile di controllo e una parabola satellitare. Una cinquantina di persone rappresentano la componente umana della squadra ma, una volta in aria, il Predator può essere teleguidato da qualsiasi ragazzino esperto in simulazione di volo: le uniche fasi per cui è richiesta una certa pratica sono il decollo e l’atterraggio. Se adesso volete seguirmi sulla pista, sarò lieto di proseguire la nostra dimostrazione.»
Davanti ai cancelli della Casa Bianca, pareva che le «folle silenziose e protestanti» fossero ormai un elemento stabile dell’arredo urbano: non c’era giorno che qualche associazione di cittadini non si sentisse in dovere di erigere cartelli per esprimere il proprio dissenso davanti alla residenza presidenziale.
Lo sciame di persone di turno quel giorno pareva tutt’altro che silenzioso: facendo ruotare la lingua all’interno della bocca, le donne musulmane producevano un suono stridulo, che oltrepassava i vetri blindati della Sala Ovale e avrebbe potuto raggiungere le orecchie del presidente, qualora fosse stato presente.
Il motivo della protesta era lo stesso che aveva spinto il presidente a esercitare le sue pressioni sugli organi di sicurezza: le azioni terroristiche del Giusto stavano creando grossi problemi al governo non solo a livello internazionale. Adesso ci si metteva anche il sit-in di cinquecento donne musulmane d’America.
Una pubblicità negativa come quella proprio non ci voleva, con la campagna elettorale ormai alle porte.
Gli agenti del servizio d’ordine restavano a guardare le dimostranti con un’aria più paterna che severa. Due poliziotti a cavallo chiacchieravano in un angolo. C’era una certa confusione, ma tutto sembrava svolgersi in maniera pacifica. La tragedia si manifestò senza preavviso, inattesa come un fulmine a ciel sereno.
«Ecco il nostro aereo», disse l’ufficiale del 15° stormo dell’Air Force indicando un uccello in alluminio dalla grossa testa e dalle ali sottili. «Ed ecco l’unità mobile di controllo. Per la nostra simulazione ci siamo avvalsi di questo aereo, armato con due missili Hellfire a guida laser. L’aereo dovrà raggiungere la zona prescelta — un poligono di tiro dell’esercito distante da qui venti chilometri — e distruggere un caseggiato che fingeremo essere caduto in mano a un commando terrorista. Intanto noi ci godremo lo spettacolo su piccolo schermo… State a vedere.»
Così dicendo l’ufficiale fece un cenno a un subalterno che prese posto nella parte posteriore di un fuoristrada Hummer posteggiato vicino all’aereo.
Il «pilota remoto», questo il termine usato dall’ufficiale, sedette su una sedia ergonomica, di fronte a due grossi monitor sovrapposti ad altri due di dimensioni più piccole. Strinse il joystick e azionò alcuni comandi che si trovavano su una tastiera di fronte a lui. Come per miracolo il motore del Predator tossicchiò e, un istante più tardi, l’elica prese a girare. L’aeromobile si mosse a piccoli balzi, sottolineando la sua leggerezza, quindi si avviò verso la breve pista e diede inizio alla dimostrazione.
«Potrebbe decollare e atterrare nel parcheggio di un supermercato o lungo il breve rettilineo di una strada statale», disse l’ufficiale mentre il Predator rullava. I suoi occhi tradivano lo stesso orgoglio di un padre alla cerimonia di consegna del diploma di laurea al proprio figlio.
«La GCS — Ground Control Station — possiede, come vedete, una doppia postazione. Da qui si possono controllare contemporaneamente due aeromobili occupati in due missioni diverse. E non solo, grazie a un sistema di controllo satellitare, da qui possiamo guidare un Predator in azione dalla parte opposta del globo terrestre.»
Deuville, capo dell’FBI, si accingeva a porre alcune domande, ma l’ufficiale lo prevenne.
«Conoscendo il codice operativo di un aeromobile, si possono inviare impulsi utilizzando una connessione satellitare che in gergo chiamiamo Ku-band. Insomma, il nostro operatore potrebbe, attraverso quella», e indicò una grossa antenna parabolica posta sul tetto del mezzo militare, «portare in giro un aereo sui cieli della Bosnia o di Baghdad, rimanendo comodamente seduto su un Hummer all’interno dell’aeroporto di Washington.»
In quell’istante il Predator si librò in volo.
Era trascorsa una settimana da quando aveva inviato l’ultima lettera. In quei sette giorni non aveva fatto altro che affinare la pratica con il simulatore.
Le dita sottili si strinsero attorno al joystick. Lo sguardo del Giusto era fisso sul monitor. Le immagini scorrevano su vedute di Washington riprese da una telecamera di precisione. Il Giusto controllò le caratteristiche di un crocevia con una mappa che teneva a fianco dello schermo. Quello era il momento.
«E così, ogni tanto ti ricordi della tua balebatish Mame-loshen. Dopo che quella bella signora dei federali è venuta a cercarti, sei sparito e non ti sei più fatto vedere.» Lilith si riferiva al primo incontro che Oswald aveva avuto con Cassandra Ziegler nella casa degli Habar a Denver, in Colorado.
«Hai ragione, Lilith», rispose Oswald alzandosi sulle punte per arrivare a baciare la guancia della madre adottiva. «La verità è che io non sono altrettanto balebatish , cioè beneducato. Però, vedi, appena sono capitato da queste parti non ho potuto fare a meno di farti visita.»
Oswald omise volutamente di dire che si trovava in Colorado per una visita a un carcere di massima sicurezza, con lo scopo di convincere uno tra i più pericolosi serial bomber di ogni tempo, prima che il Giusto ne oscurasse l’operato, a passare dall’«altra parte della barricata».
La telefonata di Cassandra di alcuni giorni prima era giunta come un fulmine a ciel sereno: Oswald aveva sperato che il nemico avrebbe dato loro un po’ di tregua.
Ma non era stato così ed erano ormai trascorsi sei giorni dall’arrivo del messaggio: generalmente, quello era il lasso di tempo che intercorreva tra l’annuncio e l’attentato.
Читать дальше