Anche se a bordo della caracca ci sarebbero stati cinque difensori in meno, l’impresa di salvare i due uomini, il fanciullo e la donna era, a questo punto, ai limiti dell’impossibile. Ma la vita aveva temprato quell’uomo come la più resistente delle lame e sembrava che i confini tra il possibile e l’impossibile non lo riguardassero per niente.
La caracca su cui erano imbarcati Campagnola e i suoi prigionieri avanzava nella notte. Il badan la seguiva a poca distanza, nascosto dall’oscurità.
Giugno 2004
Theodore Kaczynski era nato a Chicago nel maggio del 1942.
Trentasei anni più tardi, nel 1978, Unabomber avrebbe compiuto il suo primo attentato ai danni di un professore universitario — Buckley Crist il suo nome — della Northwestern University di Evanston, Illinois. Quella prima azione — un pacco ritornato al mittente contenente esplosivo a basso potenziale, che però il mittente non aveva mai spedito — aveva procurato soltanto lievi ferite a un poliziotto del campus universitario. Crist, infatti, insospettito, aveva allertato la sicurezza. Il vigilante, Terry Marker, aveva persino scherzato, ipotizzando che si trattasse di una bomba. Il pacco era esploso non appena Terry lo aveva aperto.
L’episodio aveva rappresentato l’inizio di un crescendo terroristico durato quasi diciotto anni, nel corso dei quali un uomo apparentemente insignificante come Kaczynski avrebbe seminato terrore e morte sull’intero territorio nordamericano.
«Vedo che si dedica alla lettura, professor Kaczynski», disse Breil osservando i libri che Unabomber aveva sottobraccio.
L’appellativo di «professore» era quello con cui in molti gli si rivolgevano, memori del passato di Kaczynski come insegnante alla Berkeley University.
«Che cosa vuole che faccia, dottor Breil, qui dentro o si legge o si muore», rispose indicando la sedia dalla parte opposta del tavolo e facendo educatamente cenno a Oswald di sedersi, mentre nei suoi occhi scuri e spiritati brillava una luce inquietante.
Ted Kaczynski indossava la tuta arancione dei prigionieri. Si era rasato da poco, forse in segno di rispetto nei confronti dell’interlocutore che ora conferiva con lui all’interno del parlatorio del carcere di massima sicurezza Supermax, in Colorado.
Le guance erano scavate e i capelli, grigi e scompigliati, ricordavano la rosa di un fuoco d’artificio. Aveva modi gentili, ma una vena di follia si percepiva nell’espressione degli occhi scuri, uno dei quali era affetto da un leggero strabismo.
«Ho letto molto su di lei, dottor Breil e sono davvero onorato che una persona della sua importanza si sia scomodata per venire sino a questo posto dimenticato da Dio. Una sigaretta?»
«No, grazie, professor Kaczynski. Non fumo. Anche io ho letto molto su di lei prima di venire a trovarla… La Rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state disastrose per la razza umana… » disse Oswald, citando a memoria un brano tratto da un documento noto come «il Manifesto di Unabomber».
L’attentatore aveva diramato il testo nel momento in cui le forze dell’ordine brancolavano nell’oscurità alla ricerca della minaccia nazionale da lui stesso rappresentata. Il Manifesto era stato pubblicato integralmente da alcuni quotidiani americani e la cosa era apparsa come un’ulteriore sfida nei confronti delle autorità.
«Non sono qui per una gara di memoria o un duello sul sapere umano, professore, ma perché sono convinto che le sue conoscenze ci potranno essere utili per la risoluzione di un caso di cui mi sto occupando.»
«Il Giusto in nome di Dio?» lo interruppe Kaczynski e, al cenno di assenso di Breil, riprese. «Non capisco che cosa abbia a che fare un ex primo ministro di Israele con un terrorista che se la prende con i musulmani. In fondo sta facendo il vostro gioco.»
«Non sono d’accordo. I bersagli scelti dal terrorista sono sempre cittadini innocenti. Inoltre le azioni di quello che si fa chiamare il Giusto rischiano di scardinare equilibri già molto precari. Bisogna fermarlo al più presto e lei può darmi una mano, Kaczynski.»
«Al momento non penso di poter esserle d’aiuto, dottor Breil. E questo non perché voglia farmi desiderare. In una precedente occasione, quando ho collaborato con le autorità, il tempo per me si era di nuovo messo a correre. E lei non sa quanto sia importante qui dentro far passare il tempo con la mente impegnata. Ma, rispetto al Giusto, l’attentatore di Oklahoma era un principiante. Mi sono interessato al suo operato sin dalla prima esplosione, basandomi su quel poco che posso sapere rinchiuso in una cella due metri per due. È difficile, dottor Breil… molto difficile riuscire a prenderlo… è furbo, attento, quasi infallibile. Credo sia di diversi gradi superiore al mio modo approssimativo di operare. E se io sono riuscito a tenere in scacco i federali per diciotto anni… Va poi tenuto conto che il Giusto sembra non conoscere confini: spazia per mezzo mondo senza che nessuno sia riuscito a individuare un nesso tra la scelta dei suoi obiettivi.»
«Vedo che ha seguito la faccenda, professor Kaczynski.»
«Deformazione… professionale.» Gli occhi di Unabomber assunsero un’espressione vuota, assente, come se l’uomo si fosse perso nei ricordi di eroici tempi passati.
« Vorrei spendere una parola… » continuò Kaczynski citando un pensatore ottocentesco a cui diceva di essersi ispirato nel redigere il delirante Manifesto.
« …in favore della Natura. » Fu Breil a terminare la frase di Henry David Thoreau. «E nelle nostre mani c’è davvero la sopravvivenza dell’intera natura. Non so quanto questo interessi a lei, professor Kaczynski, ma a me interessa molto. Il Giusto è una grave minaccia per le ripercussioni che le sue azioni possono produrre nei rapporti tra Oriente e Occidente, cristiani e musulmani e così via. Conto sul suo aiuto.»
«Vedo che lei non lascia mai nulla al caso, dottor Breil. Cita a memoria anche il mio autore preferito. Mi farò vivo, appena avrò qualche cosa da dirle.»
Le dita sottili si mossero veloci sulla tastiera del computer. Quindi la mano destra agì sul joystick con l’abilità di un esperto di giochi elettronici: ma non si sarebbe trattato di un gioco.
Una volta verificata la propria padronanza del sistema di guida, il Giusto tornò al programma di scrittura e compose la sua delirante premonizione.
Sura quarta.
E invece tacciano di menzogna la verità che è giunta loro, ed ecco che sono in grande confusione.
Non osservano il cielo sopra di loro, come lo abbiamo edificato e abbellito e senza fenditura alcuna?
Siamo Noi che diamo la vita e che diamo la morte. A Noi ritorna ogni cosa.
Il Giorno in cui la terra si spaccherà all’improvviso, Ci sarà facile radunarli.
Ben conosciamo quello che dicono: tu non sei tiranno nei loro confronti! Ammonisci dunque con il Corano chi non teme la Mia minaccia.
Quindi il sigillo dell’Anello dei Re calò ancora una volta a suggellare l’identità dell’assassino.
Cassandra Ziegler aveva parlato con Breil al telefono e gli aveva inviato il testo dell’ultima missiva del Giusto. I versetti provenivano da due distinte parti di un capitolo che rispondeva al nome di Qâf. La sura Qâf era però la cinquantesima e non la quarta, come indicato dal Giusto nel suo messaggio. Il quarto capitolo del Corano si intitolava infatti An-Nisâ’ («Le Donne») e il suo testo nulla aveva a che fare con quello inviato dal terrorista. Cassandra e Oswald si erano interrogati a lungo, formulando ipotesi sul nuovo obiettivo del Giusto. Nessun elemento sembrava in grado di essere loro d’aiuto. Oswald di una cosa era convinto: l’indicazione di una sura diversa da quella poi riportata non doveva essere imputata a un errore da parte dell’assassino.
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