Sciarra sorrise e si lasciò andare a una colorita espressione in siciliano, una delle poche parole che conosceva nella lingua dei suoi nonni.
«Quella è la macchina degli inglesi. Si dice che un ufficiale molto ricco di stanza a Port Said l’abbia regalata ai suoi colleghi al momento del congedo per invalidità: una granata turca gli aveva amputato entrambe le gambe.»
Mentre Sciarra aiutava il giovane a caricare i propri effetti sulla ribalta del carro, la sua attenzione fu catturata dalla donna che saliva sulla Ford: era vestita in maniera elegante ma senza fronzoli. Da quella distanza si sarebbe detta molto avvenente, anche se il volto era rimasto celato alla vista di Sciarra.
L’auto partì accompagnata da un borbottio sommesso, seguita dallo sguardo del colonnello italiano il quale non si spiegava il motivo dello strano senso di familiarità che la donna aveva suscitato in lui. Un sergente in uniforme impeccabile era al posto di guida e fungeva da chauffeur.
Lo chauffeur di Sciarra schioccò, invece, la lingua e incitò i due cavalli scuotendo le briglie. «L’Egitto, signore, è una terra meravigliosa… c’è tutto quello che si può desiderare: storia, cultura, intrighi… e le picciotte… signore… le picciotte…» Rocco baciò la punta delle sue dita unite. «Vedrete, signore, avrete modo anche voi di amare questa terra. Il battello per il Cairo è in partenza tra poche ore, signore, dobbiamo affrettarci se non vogliamo restare a piedi.»
Erano trascorsi ormai tre giorni da quando Sciarra aveva raggiunto il Cairo, dopo un viaggio di tutto riposo lungo le acque calme del Grande Fiume. I colori del Nilo erano quanto di più incredibile la natura riuscisse a offrire: i rossi dei tramonti, i contrasti tra la rigogliosa vegetazione delle rive e il deserto subito dietro, le carovane di nomadi che ne seguivano il corso con i loro cammelli.
L’invito per la serata era ufficiale e molto formale. Rocco entrò nella stanza con l’uniforme da cerimonia del colonnello appena stirata e appesa a una gruccia. «Ecco, signor colonnello, sono convinto che farete una gran bella figura questa sera con gli inglesi.»
«Grazie, Rocco.» Nell’osservare il proprio attendente, Sciarra si chiese come un giovane così mascolino potesse adattarsi a svolgere lavori che erano tipici delle donne, come stirare una divisa, fare il bucato o tenere pulito l’alloggio del proprio superiore. In un attimo gli tornarono alla mente le urla dei suoi uomini che, abbandonata la trincea, si lanciavano all’assalto.
Gli parve di sentire ancora una volta il brivido che correva lungo la spina dorsale quando l’urlo: «Gas!» si diffondeva di bocca in bocca nelle gallerie. Vide le smorfie di dolore dipinte sul volto degli alpini feriti o l’espressione di terrore che spesso restava impressa negli occhi di chi moriva. Poi, il suo sguardo si posò nuovamente sul sorriso sfrontato di Rocco che gli porgeva l’alta uniforme.
«Ha ragione lui. Rocco è molto più furbo di quelli che imbracciano un moschetto e gridano nel corso della carica per farsi coraggio», si disse il colonnello. «In questo modo è riuscito a evitare di essere bollato come imboscato e non corre il rischio di beccarsi una pallottola in fronte. Il rovescio della medaglia è che deve compiere un lavoro poco eroico come quello di accudire un ufficiale. Ma in fondo non riesco a biasimarlo per la sua scelta.»
La sala era affollata da tutte le più alte personalità militari di stanza al Cairo.
«Permettetemi di presentarvi il comandante delle nostre forze in Medio Oriente, colonnello Sciarra», disse il colonnello Wilson, rappresentante inglese presso lo Stato arabo, rivolgendosi quindi all’altro ufficiale. «Generale Allenby, vi presento il colonnello Sciarra della Volta, dell’Esercito italiano.»
Mentre l’italiano assumeva la posizione di attenti, l’altro gli tese la mano con fare amichevole. «Mi auguro che voi capiate la mia lingua, io non conosco che poche parole della vostra.»
Avuta l’assicurazione che il suo interlocutore si esprimeva in un ottimo inglese, Edmund Allenby continuò: «Vi stavamo aspettando, colonnello e vi do il mio sincero benvenuto. Credo sia opportuno che voi mi concediate una vostra visita… diciamo domani nel pomeriggio… vi lascio un po’ di tempo per ambientarvi». Così dicendo il generale si volse, non certo per poco rispetto verso il suo sottoposto italiano, ma per la galanteria di cui Allenby era maestro: un’elegante signora si stava dirigendo verso di loro.
La donna liquidò con un sorriso distratto le attenzioni del generale e si pose davanti al colonnello Sciarra. «Alberto… Alberto… quanta felicità… Come stai? Lasciati guardare…»
«Kimber… Kimberly, la mia salvatrice quando ho giocato a fare l’aviatore…»
Rimasero attoniti a guardarsi negli occhi per un istante, poi fu la donna a cingerlo in un abbraccio pieno d’affetto e di sincera gioia.
«Ehm, colonnelli… vedo che il saluto tra parigrado ha un’etichetta del tutto particolare tra gli ufficiali italiani e quelli della Corona britannica. È chiaro che voi conoscete già il colonnello Kimberly Hadwin della Croce Rossa e capisco che avrete un sacco di cose da raccontarvi. Di certo voi sarete uno degli ospiti più invidiati della serata, colonnello Sciarra… a domani. Buona serata anche a voi, colonnello Hadwin.»
Il generale inglese aveva ragione: erano troppe le cose che avevano da dirsi e la voglia che avevano entrambi di raccontarsele. Ed entro breve tempo Alberto sarebbe dovuto partire per una nuova e pericolosa missione. Questo pensiero parve prendere corpo nella mente di Kimberly all’improvviso.
Il vento accarezzava le palme e portava una piacevole frescura nel giardino interno del lussuoso palazzo del residente di sua maestà britannica al Cairo. I due colonnelli erano uno di fronte all’altra in un angolo isolato del parco. Ciò che si svolgeva tra i due non era un duello, ma i loro occhi saettavano come le lame di cento spade.
Sciarra si chinò verso di lei. Kimberly non fece nulla per respingerlo. La sua bocca si schiuse, sotto la pressione di quella dell’italiano. In quel bacio percepirono la forza di un desiderio che già una volta avevano represso.
«Ho atteso questo momento per giorni e giorni. Non sai quanto abbia rimpianto…» disse Alberto tenendola stretta, mentre lei gli poneva l’indice sulle labbra, facendogli cenno di fare silenzio.
«Non credo sia possibile dire quanto tu mi sia mancato. Non c’è stato un giorno in cui tu non mi sia tornato alla mente.»
Quella volta non avrebbero avuto rimorsi per un’occasione perduta.
Mare Adriatico, 1348
«Devi essere fiero di lui, Humarawa», disse il cinese indicando Adil. «Non fosse stato per il nostro piccolo amico sarei diventato cibo per i pesci.»
«Hai ragione. E io devo la vita, oltre che al tuo coraggio, alla nostra nuova amica: senza le cure di Rhoda non sarei qui a parlare con te», disse Humarawa indicando la nuova donna che, ripulita e abbandonati i cenci luridi, pareva non aver più nulla in comune con la strega che avevano conosciuto.
«Sia pace per Crespi. Abbiamo affrontato insieme insidie e nemici, ed è stato per noi un compagno leale e coraggioso: conserverò sempre il ricordo della sua amicizia», aggiunse Humarawa guardando il mare calmo.
«Già, pace a Crespi», gli fece eco Wu, e subito aggiunse, quasi per allentare la cappa di tristezza che era calata su di loro: «Questa sì che è una barca, mio signore, non quel guscio con cui siamo scappati da Venezia».
La cocca, un tempo parte della flotta personale di Campagnola, navigava placida verso sud: dovevano mettere quanta più strada possibile tra loro e il veneziano. Conoscevano ormai troppo bene la sua malvagità e il suo accanimento.
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