Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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«Sia pure», aveva detto l’altro, «ma perché prima di ucciderlo non ci divertiamo un po’ con questo pachiderma?»

«No, accoppiamolo subito e non se ne parli più. Questi figli del Demonio hanno sette vite come i gatti», rispose l’altro.

«Che cosa vuoi che succeda? È legato come una vela attorno al boma.»

Quello dei due che appariva più timoroso si lasciò convincere. Entrambi passarono la drizza dell’amantiglio, la cima che serviva per issare la randa, in mezzo alle corde che assicuravano le caviglie di Wu, quindi sollevarono non senza fatica il bestione sopra al ponte e sbracciarono fuori bordo la drizza e il suo carico.

Wu aveva un’espressione di odio dipinta negli occhi. Si dimenava quel tanto che riusciva, stretto com’era dalle corde. «Pregate il vostro Dio, se mai ne avete uno, di riuscire ad accopparmi in fretta, altrimenti verrà il giorno in cui mi prenderò la vostra vita fra le più atroci sofferenze.»

«Risparmia il fiato, orientale», lo schernì uno degli aguzzini. «Tra poco vedrai a cosa ti servirà.»

Così dicendo gli uomini calarono il cinese dapprima a pelo d’acqua, quindi lo immersero sino alla cintura.

Trascorsero interminabili momenti prima che i due salpassero l’amantiglio.

Il cinese emise un grido soffocato dai colpi di tosse, quindi respirò a pieni polmoni, mentre il supplizio incominciava una seconda volta. I due sghignazzarono mentre scandivano il tempo. Quello che aveva insistito per non giustiziare subito il cinese era arrivato a contare sino al numero cinquanta, quando strabuzzò gli occhi. La sua espressione, mentre moriva, fu più di incredulità che di dolore. Un fiotto di sangue gli fuoriuscì dalla bocca, mentre si accasciava sul ponte.

Il secondo si girò nelle quattro direzioni. Le mani afferravano ancora istintivamente la cima a cui era appeso Wu.

Il boma oscillò, attraversando a grande velocità l’intera larghezza del ponte, e arrestò la sua corsa sul petto del servo di Campagnola. L’uomo emise un rumore simile a quello di un otre pieno d’aria che si gonfia e venne catapultato all’indietro, sorvolò la balaustra e cadde in mare privo di sensi.

Adil stava in un angolo, nelle mani teneva il pugnale con cui aveva reciso la scotta che teneva serrato il boma. L’altro pugnale era conficcato nel petto del secondo uomo. L’espressione orgogliosa, appena comparsa, si spense subito sul viso del fanciullo: non aveva molto tempo, se voleva salvare la vita a Wu.

La paura gli aveva paralizzato i riflessi. Lo scambio di colpi durò pochi attimi, quindi il sicario cadde a terra trafitto da una lama che si era mossa con tale rapidità da sembrare invisibile.

Campagnola e i due compari che gli erano rimasti non erano però restati con le mani in mano: fu il nobile veneziano a colpire Humarawa al capo con l’elsa della spada.

Il giapponese barcollò per un solo istante, ma quanto bastò per consentire a Tommaso di sferrare un secondo colpo.

Humarawa cadde a terra privo di sensi.

Allora un grido riempì la stanza della baracca. Da un angolo buio sbucò Rhoda, che impugnava una spada. I primi due impacciati fendenti tagliarono l’aria. Per i tre esperti spadaccini fu quasi un gioco disarmare la strega.

Quando Humarawa riprese i sensi era legato con le mani dietro alla schiena, assicurato a uno dei pilastri in legno che sorreggevano il tetto.

«Bentornato, ti stavamo proprio aspettando, prode samurai.» La sgradevole voce di Campagnola lo riscosse. «Ti stava aspettando anche la tua valorosa compagna. Sei caduto davvero in basso, Humarawa… Le donne più belle di Venezia erano pazze per il condottiero venuto da lontano, e adesso devi convivere con una strega… Dove sono gli altri? Dillo, avrai salva la vita e la tua donna non subirà alcun affronto.» Così dicendo Campagnola indicò Rhoda, che era stata legata mani e piedi alle quattro gambe del tavolo sul quale era stata posta supina.

«Non so dove si trovano i miei compagni e quella non è la mia donna.»

A un cenno di Campagnola, la mano rude di Tommaso strappò la parte superiore delle vesti di Rhoda e si soffermò sul seno rotondo e bianco.

«Ti conviene dirmi quello che ti chiedo, Humarawa. È da molto tempo che i miei non toccano il corpo di una femmina… Pensa con quanta felicità banchetterebbero con lei i due che hai appena accecato con le tue trappole.»

«Ti ho detto che non so dove si trovano. Lascia stare quella donna, lei non ha nessuna colpa.»

«Vedo che la salute di questa principessa ti preme, mio samurai. Vai avanti, Tommaso.»

Anche la parte inferiore del vestito cadde in un angolo. Rhoda rimase nuda, mentre le mani di Tommaso si avventavano sul suo sesso.

La donna si riempì la bocca di saliva, poi sputò in faccia a colui che si accingeva a violentarla.

«Sì», disse Tommaso, mentre si calava le brache, «mi è sempre piaciuto cavalcare puledre di carattere.»

Wu pensò che, in fondo, la morte non era poi così terribile: l’importante era avere il coraggio di guardarla bene negli occhi. «Addio, piccolo Adil», si trovò a pensare l’uomo che stava per morire, sperando che il giovane si fosse messo in salvo.

Fu a quel punto che qualcosa lo sfiorò. Era un tocco leggero. La piccola mano si aggrappò con forza alla camicia del gigante e tentò di tirarlo verso la superficie. Wu si riscosse, aprì gli occhi. Nell’ultimo barlume di coscienza gli parve di distinguere i tratti di Adil. Mosse le gambe e si rese conto che il piccolo lo aveva liberato dai legacci. Pochi istanti più tardi il cinese riempì i polmoni d’aria, emettendo un interminabile sibilo, interrotto da forti colpi di tosse.

Tommaso doveva aver riservato quel genere di trattamento a molte altre donne prima di Rhoda. Non mostrava alcuna incertezza, anzi sembrava molto eccitato.

L’altro sgherro, un’espressione folle dipinta in volto, si preoccupava di tenere fermo il bacino della donna.

«Allora, vuoi parlare o no?» chiese un’ultima volta Campagnola, rivolto al giapponese.

Fu invece Rhoda a rispondergli: «Tu morirai, Campagnola. E morendo pagherai solo una piccola parte delle tue colpe. Io ti maledico».

Il veneziano fece un cenno con il capo e Tommaso inarcò la schiena per spingersi dentro di lei.

Il rumore sulle assi del pavimento era simile a quello della carica di un rinoceronte. La mole di Wu in effetti ricordava quella di un pachiderma inferocito, mentre rovinava addosso a Tommaso. L’uomo di Campagnola tentò di afferrare la spada, senza che Wu gliene concedesse il tempo. L’altro cercò di assalire il gigante che ancora grondava acqua dai capelli lunghi e dalle vesti. Wu non si accorse nemmeno che la lama gli aveva provocato una leggera ferita all’avambraccio. Afferrò la spada, tirando verso di sé l’avversario. Il pugno del cinese calò come un maglio sul volto del veneziano, e gli frantumò la maggior parte delle ossa facciali e del cranio, provocandone la morte.

«Presto, Wu, non dobbiamo lasciare fuggire Campagnola», disse Humarawa al cinese.

Era troppo tardi, però: Campagnola era saltato in groppa al suo cavallo e stava galoppando alla volta di Spalato.

La città alternava, alla sua reggenza, ungheresi e veneziani, e da circa un ventennio erano questi ultimi a tenerne le redini. Qui giunto avrebbe avuto modo di far valere il suo potere e chiedere aiuto per cercare i fuggitivi o per rientrare a Venezia e là riorganizzarsi.

Una cosa era certa, si ripromise il veneziano mentre con gli occhi iniettati di sangue galoppava lungo il sentiero che conduceva in città: Humarawa e i suoi non l’avrebbero fatta franca.

33

Maggio 2004

Ogni azione condotta dai servizi statunitensi pareva essere conforme a un protocollo creato allo scopo di ottimizzare ogni sforzo. Breil pensava a quanto fosse diverso il modo di operare dei servizi segreti israeliani. Tutto, sia nel Mossad che nello Shin Beth, era frutto del valore di pochi uomini, ed era soprattutto grazie alle loro intuizioni che erano stati risolti casi complicati e pericolosi non solo per Israele. Lì non era possibile tracciare e seguire schemi preordinati poiché si viveva in situazioni di costante emergenza: spesso l’improvvisazione era l’unico strumento in grado di salvare delle vite.

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