Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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Adrik Gavrilovič era nato negli Stati Uniti d’America da genitori ucraini cinquantadue anni prima. La sua fedina penale era simile a un foglio di carta da alimenti nel quale fosse stato conservato un trancio di pizza al pomodoro: le macchie erano ovunque, ma la cosa sembrava non preoccupare affatto Gavrilovič.

«Il russo», come veniva chiamato in certi ambienti, perseverava nei suoi loschi affari, in barba a tutte le leggi e a ogni considerazione morale. Quello che definiva «banco dei pegni» altro non era che uno sportello di ricettazione e strozzinaggio aperto dodici ore al giorno. Acquistare refurtiva da tossici in crisi di astinenza da crack poteva dirsi la più onesta tra le occupazioni di Gavrilovič: il solo fatto che un’azione fosse atta a produrre ricchezza la rendeva automaticamente lecita. Non la pensavano così i federali, che da tempo gli stavano alle costole e che spesso facevano irruzione, armi in pugno, nel suo negozietto in Second Avenue, a pochi passi dal Museo Ucraino.

La proposta che gli aveva fatto il pezzo grosso della CIA lo aveva subito allettato: mettere in giro la voce di avere un grande quantitativo di esplosivo da vendere, in cambio di un allentamento sui controlli delle sue attività e dell’archiviazione «automatica» di ogni vecchia pendenza.

Già, chissà se il pezzo grosso dell’Agenzia, Glakas, gli pareva si chiamasse, avrebbe poi mantenuto le promesse, se lui fosse diventato determinante per la soluzione dell’indagine. «Poco male», si era detto l’ucraino, «io non rischio nulla, e da questa storia ho solo da trarre profitto.»

Glakas si era quasi scordato dell’incarico che aveva affidato a Gavrilovič.

Quando il funzionario aveva sentito squillare il telefono riservato aveva sperato che fosse qualcuno dei suoi che gli comunicava una buona notizia sul fronte delle indagini rivolte a scovare un covo di integralisti fedeli alla Jihad. A dire il vero il funzionario della CIA ci mise alcuni secondi prima di riuscire a fare mente locale.

«Mi ha chiamato un acquirente, signore», disse Gavrilovič raggiante.

«Non mi sembra il caso di eccitarsi in questa maniera: negli Stati Uniti ci sono infiniti acquirenti di una partita clandestina di esplosivo ad alto potenziale», rispose Glakas cercando di ridimensionare gli entusiasmi del ricettatore.

«Non era come gli altri due che hanno chiesto notizie, signore. Per quelli non ho nemmeno pensato di disturbarla. Questo era diverso, parlava con la voce contraffatta. Era risoluto e freddo. Sono sicuro che si trattava del nostro uomo.»

«Bene, Gavrilovič, se è così, speriamo che ti contatti nuovamente. Sai quello che devi fare.»

A pochi isolati di distanza dal monte dei pegni di Gavrilovič, una persona vestita da addetto alla manutenzione delle linee telefoniche stava scollegando due morsetti da un pannello. Le dita sottili avevano armeggiato per pochi secondi, prima di identificare la chiamata del ricettatore ucraino: una volta effettuato il ponte e ottenuto accesso alla linea di Gavrilovič, nella mente del Giusto erano diventati chiari i contorni della trappola. Le mani dalle dita sottili erano coperte dai guanti in dotazione agli addetti alla manutenzione.

Il Giusto richiuse lo sportello dell’armadietto delle derivazioni telefoniche, non senza aver prima annotato il numero che Gavrilovič aveva composto; le cifre erano comparse sul display del telefono di servizio che il finto operaio aveva collegato alla linea per intercettare la chiamata.

26

Maggio 1917

Quando Sciarra aprì gli occhi, una fitta lancinante si irradiò dal punto in cui era stato colpito dandogli la sensazione che la testa stesse per esplodergli. La scena che vide, mentre si tastava un grumo di sangue rappreso tra i capelli, fu tale da fargli riacquistare lucidità in una frazione di secondo.

A poca distanza dal mobile settecentesco si trovava un vecchio inginocchiato che si dava da fare per prestare le prime cure a una persona stesa a terra.

Sciarra riconobbe l’anziano guardiano che lui e il tenente Petra avevano scorto poco prima dal loro nascondiglio.

Poi, riconoscendo Petra nella persona ferita, gli tornò alla mente il motivo per cui lui e il suo sottoposto si erano venuti a trovare nel castello in cui era nato Vlad Tepes. Guardò nel cassetto segreto, non si stupì nel vedere che era stato svuotato, quindi si affiancò al vecchio e insieme tentarono di rianimare il ferito.

Minhea Petra aveva una ferita che pareva causata da un colpo di arma da fuoco, poco sopra il sopracciglio sinistro. Il sangue ne sgorgava copioso. Per un istante Sciarra temette di averlo perso per sempre. Una paura che sembrava attanagliare anche l’anziano servitore: «Mio signore… mio signore… ve ne prego, svegliatevi. Ve ne prego, signorino Minhea… ve ne prego…» continuava a ripetere Toma.

Minhea con un movimento improvviso si riscosse e tornò in sé, si portò le mani alla ferita e tentò di detergersi gli occhi coperti di sangue, quindi disse con voce ferma: «Mi ha sparato a bruciapelo. Non so come faccio a essere ancora vivo».

«Avete avuto una grande fortuna, tenente: il colpo, comunque di piccolo calibro, non è riuscito a penetrare nel cranio, ed è schizzato via per la tangente. La pallottola potrebbe avere scheggiato l’osso frontale. Avete visto chi è stato?»

«Blasko», rispose Petru senza esitazione. «Era Béla Blasko. Ha preso lo scrigno che conteneva alcuni gioielli di famiglia e l’Anello dei Re.»

«Se si trattava di Blasko il palazzo sarà presto invaso da soldati ungheresi ai quali avrà denunciato la nostra presenza. Dobbiamo uscire di qui e fuggire.»

Quasi le avessero evocate, alcune voci concitate risuonarono nella piazza antistante il castello di Dracula. Con movimento simultaneo le mani di Sciarra e di Petru corsero alle pistole.

Fu Toma, allora, a parlare: «Presto, signorino Minhea, seguitemi. Vi condurrò fuori di qui».

Il terzetto si inoltrò nei locali occupati un tempo dalla servitù, mentre lo scalpiccio dei soldati ungheresi risuonava ormai all’interno del palazzo.

Giunti nelle cucine, Toma porse una lanterna a Sciarra, prima di aprire una porta e scendere lungo la scala che conduceva ai sotterranei.

La ferita di Petru aveva smesso di sanguinare, almeno a giudicare dalla benda che l’ufficiale rumeno si era avvolto intorno al capo.

«Presto, di qua», disse Toma aprendo una botola sul pavimento posta tra due file di botti di rovere. «Seguendo il canale delle fognature, che passa qui sotto, arriverete fuori dalla città in pochi minuti. Il canale si getta nel Tirnava. Seguendo il corso del fiume, dopo un paio di chilometri incontrerete una piccola fattoria. Il proprietario si chiama Mihail, è mio cugino. Se gli ungheresi non gli hanno confiscato tutti i cavalli, sarà felice di vendervene un paio. Che Dio sia con voi, signorino Minhea.»

Così dicendo il vecchio Toma si fece il segno della croce e chinò il capo aspettando la benedizione del suo signore. Minhea gli appoggiò una mano sulla spalla mentre la commozione gli impediva di parlare.

Ancora una volta era costretto a lasciare la sua terra. Ma non c’era tempo per gli addii: Blasko era alle loro costole e, inoltre, la guerra e l’Italia reclamavano i loro ufficiali.

«Presto, dobbiamo andarcene da qui!» li interruppe Sciarra.

Non appena i due uomini scomparvero nella botola, Toma si affrettò a riguadagnare gli appartamenti padronali, ma mentre risaliva lo scalone Béla Blasko gli si parò davanti.

L’ufficiale ungherese sembrava furibondo e gli chiese: «Dove sono?»

Gli occhi mandavano sinistri bagliori.

«Non ho idea di chi stiate parlando, signore. Mi trovavo nella mia stanza e tutto questo trambusto mi ha svegliato.» Troppo tardi si rese conto che i suoi abiti e le sue mani erano sporchi del sangue del suo padrone. Ma quel particolare non era sfuggito allo sguardo indagatore dell’ufficiale ungherese. Blasko estrasse la pistola e la puntò alla tempia di Toma: «Forse nelle tue stanze ti diletti a sgozzare i maiali, vecchio? Adesso mi dirai dove si trovano. Non credo siano riusciti ad abbandonare questo palazzo. E mi spiegherai anche come hanno fatto a sopravvivere, l’uno a una palla di pistola in testa e l’altro a un colpo inferto con una mazza e capace di mandare all’altro mondo un bue».

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