Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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«Le chiedo di raccontarmi quello che è accaduto nel tempo che ha preceduto e seguito l’attacco al bunker 164. Lei, generale, potrebbe essere l’unica persona al mondo a conoscere il destino di un oggetto di grande importanza per il mio popolo: l’Anello dei Re.»

«È una storia lunga, colonnello Breil…»

«Ho tutto il tempo, generale, ho tutto il tempo…»

Il sole stava scomparendo dietro alle cime. Il generale Sciarra della Volta aveva detto il vero affermando di avere un’ottima memoria, nonostante fosse prossimo agli ottant’anni. Il passato gli si presentava nitido come i fotogrammi di un film, ed egli sapeva che quel passato avrebbe ancora potuto farlo soffrire. Respirò a fondo l’aria tersa della sera in montagna. L’imponente anfiteatro delle Dolomiti che sovrastava la conca di Cortina andava colorandosi di rosa, mentre l’anziano eroe della Grande Guerra incominciava a parlare.

Con precisione quasi maniacale il generale ricostruiva i fatti in maniera dettagliata. Nel frattempo, Asher Breil prendeva appunti.

Quando, tre giorni dopo, Sciarra disse: «Così sono andati i fatti, signor Breil», Asher aveva riempito una trentina di pagine e lo aveva fatto utilizzando il linguaggio che soltanto lui e pochi altri sapevano decifrare.

PARTE TERZA

A che giovano le memorie? Di noi muore la miglior parte e non ci è memoria che possa resuscitarla.

Francesco De Sanctis, La Giovinezza
28 Ragusa 1348 Le urla spaventate e irose degli avventori della locanda non - фото 3

28

Ragusa, 1348

Le urla spaventate e irose degli avventori della locanda non impensierirono Wu che, con il pesante fardello di Crespi sulle spalle, correva senza voltarsi verso il porto. Il piccolo Adil gli stava appresso.

Non appena giunsero al mare, i tre salirono su una barca da pesca ormeggiata in banchina e, dopo aver deposto sotto la piccola tuga l’amico, Wu ordinò a Adil di mollare gli ormeggi e dispiegò al vento l’unica vela. Pochi istanti più tardi si trovavano fuori dal porto spinti da una brezza leggera e costante. Ancora una volta in fuga.

Ma fuggire, questa volta, sarebbe stato ancora più arduo: lo spettro della peste era ben più pericoloso dei sicari di Campagnola.

«Credi… credi si tratti di peste, Wu?» chiese Adil indicando il volto pallido e madido di sudore di Crespi.

«Purtroppo sì, Adil», rispose il pirata cinese manovrando il timone. «Sulla terraferma non avremmo avuto via di scampo. Meglio prendere il largo e sperare che il contagio non colpisca anche noi. Di certo nessuno si metterà al nostro inseguimento.»

«Già…» rispose Adil, a cui la vita stava velocemente insegnando a ragionare e a comportarsi da adulto, «…il contagio… me ne ero quasi scordato. Però è vero che in passato siamo stati spesso insieme a gente che poi si è ammalata. Vuol dire che noi siamo immuni dalla peste?»

Quando furono al largo Wu calò le reti. Data la situazione, Wu e Adil potevano stare relativamente tranquilli: nessuno, dalla città di Ragusa, sarebbe andato alla ricerca di una barca di appestati. Per quanto riguardava Crespi, sarebbe stato amorevolmente accudito dai suoi amici più cari, cosa che era di solito preclusa ai malati, destinati a morire in solitudine a causa del timore del contagio.

«Adil, aiutami!» disse Wu indicando i remi, mentre la rete veniva calata di poppa. «Spingi lentamente la barca in modo che compia un semicerchio. Speriamo di riuscire a pescare abbastanza pesce per sopravvivere. E che tu abbia ragione quando dici che potremmo essere immunizzati nei confronti del morbo.»

«Ho sentito dire che alcune persone sono riuscite a sopravvivere alla malattia, Wu.»

«Prega il tuo Dio, Adil, e spera che venga in nostro aiuto. In questo momento navighiamo davvero in cattive acque, molto più pericolose di qualsiasi tempesta.» Il gigante osservò il volto livido di Alessandro Crespi e riprese: «I nostri compagni di tante avventure sembrano in procinto di lasciarci entrambi. Non abbiamo più avuto notizie da Rhoda: chissà se il mio signore Humarawa è ancora vivo».

«Piano, piano… senza fretta…» La mano di Rhoda sorreggeva la testa del guerriero giapponese, mentre questi accostava le labbra al bordo della ciotola d’acqua.

La donna guardò l’uomo con aria soddisfatta: «Tu vivrai, Humarawa. Ora ne sono certa. Tu vivrai».

Era ormai trascorsa una settimana dalla precipitosa fuga dalla locanda: sette giorni passati in mare aperto, pescando. Con l’unica eccezione di un paio di approdi su isole deserte per approvvigionarsi di acqua potabile, si erano sempre tenuti lontani dalle terre abitate.

Adil osservò il gigante mentre abbandonava il capo e chiudeva gli occhi in preda alla stanchezza. Wu, per precauzione, non aveva mai voluto che Adil si occupasse del malato, né che gli somministrasse l’acqua o il poco cibo che Crespi riusciva a ingoiare nei sempre più rari momenti di lucidità.

Il mercante emise un flebile lamento. Adil gli si avvicinò e Crespi aprì gli occhi.

«Sto morendo, piccola mia», disse rivolto a colei che tutti chiamavano ormai Adil. «Non ti avvicinare. Restami lontana il più possibile e, se proprio dovrai farlo, copriti bocca e naso con un cencio.»

Crespi parlava con fatica. «Avete con voi il cofanetto?» chiese il veneziano.

«Certo, tu stesso hai ordinato a Wu di non abbandonarlo mai, lì dentro è conservato il nostro avvenire.»

«L’avvenire… guarda a che cosa si riduce il mio avvenire…» Un violento colpo di tosse scosse il mercante. «Voglio darti una cosa, Adil. Prendi il cofanetto e aprilo. La chiave è appesa alla catena che porto al collo.»

Adil si coprì con uno straccio sudicio le narici e la bocca, quindi sfilò la chiave dalle maghe della ricca catena d’oro. La bimba riuscì a non tradire il suo turbamento dinanzi alla pelle dell’uomo ormai ridotta a una distesa scura di ecchimosi.

Adil aprì il forziere. Al suo interno c’erano gemme di ogni colore e forma, che in comune avevano la notevole caratura. Inoltre c’erano gioielli cesellati e lingotti d’oro di piccole dimensioni che avrebbero potuto essere contenuti in una borsa da cintura.

«Vedi, Adil… questo è sempre stato l’unico bagaglio da cui non mi sono mai separato. È il mio tesoro e ora il vostro futuro. Guarda sotto al cuscino di raso rosso che si trova sul fondo.»

Le mani della giovane sollevarono il piccolo cuscino ricamato e, sotto di questo, Celeste vide due oggetti. La sua attenzione fu attirata da uno dei due: si trattava di un antico anello d’oro. Era meno appariscente degli altri gioielli contenuti nel cofanetto, ma era come se fosse dotato di uno strano magnetismo: chiunque lo guardava ne era irresistibilmente attratto.

Adil osservò con attenzione l’anello: due triangoli si intersecavano tra di loro formando una stella a sei punte. Lungo il cerchio si intravedevano appena, cancellate dal tempo, delle misteriose lettere in un alfabeto sconosciuto.

«Quello è l’Anello dei Re», disse Crespi con un filo di voce, «un oggetto che la leggenda vuole appartenuto a re Salomone e dotato di enormi poteri. Ti può regalare il potere e il sapere, se ne sarai degna. Lo lascio a te perché so che ne farai buon uso.

«Nell’astuccio di pelle», riprese il veneziano, «è custodito un antichissimo papiro il cui testo dice che l’Anello dei Re è appartenuto a un imperatore di Roma. Me lo ha assicurato un greco al quale l’ho fatto tradurre. Ma voglio che tu conosca la storia recente dell’anello e prego Iddio di darmi la forza e il tempo di potertela raccontare.»

Il comandante dei sicari di Campagnola entrò nella stanza delle udienze. Attese pazientemente che il suo signore alzasse il capo verso di lui e gli concedesse la parola, quindi disse: «Li abbiamo scovati, signore. O meglio, sappiamo approssimativamente dove si trovano».

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