«Avanti», disse il nobile veneziano, mentre i suoi occhi lanciavano lampi feroci.
«Ho saputo che un corpulento cinese e un ragazzino sono fuggiti da una taverna vicino al porticciolo di Ragusa, trasportando con loro un uomo che sembrava in preda ai sintomi della peste.»
«Continua.»
«Hanno rubato una barca da pesca e hanno preso il mare. Dopo di che non hanno più toccato nessun porto, ma la barca è molto piccola: è impossibile che si siano allontanati dalla costa.»
«A quanto tempo fa risale questa notizia?»
«Credo a una decina di giorni fa, mio signore. Comunque tutti i nostri informatori sono all’erta.»
«Armate la cocca e preparatevi a salpare entro domattina. Questa volta comanderò personalmente le operazioni. Il figlio del Demonio non potrà farla franca.»
«Tu sai che tuo padre, il Muqatil, e Hito Humarawa si sono fronteggiati per tutta la vita. Ma lo hanno sempre fatto rispettando il codice d’onore che contraddistingue due guerrieri del loro calibro. Io so che l’uno non avrebbe potuto fare a meno dell’altro e che per questo non sono mai arrivati a compiere un gesto definitivo, sebbene si siano più volte trovati nelle condizioni di poter uccidersi a vicenda. Sembrava che, al momento di infliggere il colpo mortale, colui che aveva avuto la meglio esitasse sino a desistere: una sorta di legge cavalleresca non scritta che spingeva i duellanti a restituirsi a vicenda la concessione della grazia. Credimi, quando i generali veneziani hanno deciso di tentare la presa di Tabarqa contagiando la popolazione con la peste, Humarawa si è opposto al progetto con ogni forza: non era onorevole che un popolo, anche se nemico, cadesse vittima di un gesto così infame. La voce del giapponese è rimasta l’unica a contrastare quelle degli strateghi veneziani. Così è stato deciso di diffondere il contagio nella città assediata ed è stata gettata all’interno delle mura la testa mozzata di un uomo morto di peste. Il morbo è riuscito dove le macchine da guerra avevano fallito: la città di Tabarqa è caduta da lì a poco. Non ci sono state battaglie degne di tuo padre e di Humarawa, ma un nemico subdolo e invisibile ha strisciato tra le vie di una città che, altrimenti, i veneziani non avrebbero mai preso. In una delle tante occasioni in cui si erano fronteggiati, Humarawa era riuscito ad affondare la nave del Muqatil, che trasportava il tesoro del suo popolo, e a prendere prigioniero tuo padre.»
Gli occhi blu di Adil erano velati di lacrime, Crespi ansimava e ormai la sua voce era un soffio.
«Nelle operazioni di recupero, oltre al bottino, gli uomini di Humarawa avevano portato in superficie un’anfora contenente l’Anello dei Re e altri oggetti descritti nell’antico papiro. Con ogni probabilità l’anfora faceva parte del carico di una nave che il caso aveva fatto naufragare nello stesso punto molti secoli prima. Il tuo valoroso padre era riuscito a fuggire, ma le sue ricchezze erano andate a rifornire le casse di Campagnola, padre di tua madre ma suo acerrimo nemico. L’Anello però è rimasto nelle mie mani e io, da quando sei con noi, l’ho conservato per te. Se la leggenda corrisponde a verità, l’Anello dei Re ti darà la forza per sconfiggere l’uomo che ci ha perseguitato e che è stato l’artefice della distruzione della tua famiglia. Campagnola non ha esitato quando si è trattato di dare l’ordine di diffondere il contagio nella città in cui viveva sua figlia. Io spero che la tua mano non debba esitare quando si tratterà di consumare la giusta vendetta. Per questo credo sia giusto consegnare a te l’Anello dei Re. Che Dio ti sia vicino.»
«Dimmi, raccontami ancora di mio padre, Alessandro. Di lui ho solo pochi ricordi. È vero che è stato un guerriero valoroso e imbattibile? Raccontami dei duelli tra mio padre e Humarawa. Sei sicuro che sia morto a Tabarqa?»
La grande mano di Wu scivolò sulle spalle della bambina, facendola quasi trasalire: «Ormai non può più sentirti, piccola», disse il gigante cinese indicando, con gli occhi umidi, il corpo di Crespi privo di vita.
«Stai migliorando, Humarawa», disse Rhoda, osservando con una punta di orgoglio il guerriero giapponese mentre muoveva i primi incerti passi, «soltanto pochi giorni fa non avrei scommesso sulla tua vita.»
«Spero soltanto che non sia successo nulla di grave ai miei compagni. Sei certa che quanto ti hanno riferito in città sia la verità?» chiese il samurai, appoggiandosi a un bastone.
«Più che certa, Humarawa. Si dice che siano fuggiti e che Crespi fosse ammalato di peste. Sono tutti terrorizzati dal contagio: per questo ho evitato di mostrare troppa curiosità. Non vorrei che qualcuno si insospettisse per le mie domande.»
«Hai fatto bene, donna. Non saprò mai come ringraziarti. Non appena sarò in grado di farlo, mi metterò alla ricerca dei miei amici. Non potrei mai saperli soli e in pericolo. Soprattutto il piccolo Adil.»
«Si vede che sei molto affezionato a quel bambino. E anche lui mi sembrava molto legato a te.»
Uno sguardo in cui l’orgoglio si mescolava all’inquietudine brillò negli occhi del giapponese.
«Troviamoli!» disse il Campagnola non appena la cocca fu ormeggiata nel porto di Ragusa, dove il panico si era ormai propagato di strada in strada.
La peste aveva abbracciato col suo sudario funebre tutta la città e il contagio si stava rapidamente diffondendo.
Campagnola e i suoi si erano abituati a camminare tra le calli veneziane dalle quali si irradiava il mefitico odore della morte. Soltanto il fuoco poteva nascondere l’olezzo dei corpi in decomposizione: i cimiteri erano stracolmi e le isole destinate a lazzaretto erano al massimo della loro capienza.
Gli uomini che componevano il manipolo guidato dal nobile veneziano non si sarebbero certo tirati indietro dinanzi al dilagare dell’epidemia. Questo pensava il Campagnola, mentre, con la smania di un cane che scava nella terra alla ricerca di un osso, si metteva in sella con l’unico desiderio di catturare il figlio del Demonio: il bambino dagli occhi color del mare. Vivo o morto.
Aprile 2004
Erano trascorsi pochi minuti dall’attentato al circuito del Bahrein, quando una mano leggera bussò alla porta della stanza occupata da Oswald Breil al Bucarest Marriot Grand Hotel. Bernstein andò ad aprire, senza immaginare chi si sarebbe trovato davanti.
La donna, con cui il capitano del Mossad aveva intrattenuto un’asettica corrispondenza in linguaggio criptato, doveva essere stata di rara bellezza. Gli anni — poteva aver passato a occhio e croce i sessantacinque — avevano lasciato una sottile ragnatela di rughe su una pelle un tempo fresca e vellutata.
«Chiedo scusa, ma mi trovo davanti al colonnello Bors?»
«Sì, signore. E io immagino che lei sia il capitano Bernstein.»
«Mi fa piacere fare la sua conoscenza, colonnello. A dire la verità non la immaginavo così… così… femminile.» Bernstein parve fermarsi e ripetere a mente quello che aveva detto. Tentò di correggersi: «Mi ero preparato all’incontro con un coriaceo ex colonnello della Securitate e non con una signora di rara bellezza. Mi perdoni, colonnello».
«Lei è molto galante, capitano Bernstein, ma sappiamo entrambi che quella che forse era la mia bellezza si è spenta col passare degli anni. Spero di aver occasione di apprezzare in un altro contesto questo piacevole lato del suo carattere, ma ora, se non sbaglio, è stato lei a dirmi che aveva fretta…»
«Purtroppo è così, colonnello. Ha con lei il materiale che avevo richiesto?»
«Certamente, capitano. E lei ha quanto pattuito?»
«Prego!» disse Bernstein, facendo scivolare sul tavolo una valigetta di cuoio nero. «L’equivalente di settantacinquemila dollari americani in franchi svizzeri di medio taglio. Se vuol controllare…»
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