Blasko si raggomitolò ancor di più nel suo anfratto, tra il mobile intarsiato e un angolo della stanza, con la pistola stretta nella mano destra.
«Il principe guarda il sarmalé », disse Petru, citando a memoria quanto annotato sul libriccino rubatogli dall’ufficiale ungherese.
Sulla parete dinanzi a loro era dipinto un affresco raffigurante quattro persone sedute attorno a un tavolo. Il tempo e l’umidità avevano lasciato vistose macchie sul dipinto. Petru si avvicinò a una delle figure. Si trattava della raffigurazione di un uomo di corporatura robusta, dotato di un bel paio di baffi e con gli occhi a mandorla fissi su un punto lontano. L’uomo del dipinto non indossava abiti ricercati e nessun dettaglio lo distingueva dagli altri due uomini e dalla donna presenti nell’affresco.
«Questo che vedete è l’unico ritratto, giunto sino a noi, di Vlad Dracul padre, principe di Valacchia. ‘Gli occhi del principe guardano il sarmalé ’, è annotato nel quaderno. Il sarmalé è un piatto tipico della cucina rumena, il cui ingrediente principale è costituito da foglie di vite.»
Petru si volse nella direzione in cui sembrava andare lo sguardo dell’uomo con i baffi, e i suoi occhi si posarono sul mobile di legno intarsiato.
Blasko udì i passi che si avvicinavano al suo nascondiglio, mentre Petru prese a osservare con attenzione ognuno degli intarsi mirabilmente eseguiti da un artigiano di qualche secolo prima.
«Questo mobile risale alla fine del Settecento ed è della stessa epoca in cui visse il principe Alexandru, colui che decise che l’anello doveva essere custodito in un luogo sicuro. A lui si deve anche la redazione del libriccino nel quale ha annotato il sistema per trovare il nascondiglio. Ricordo che lo sguardo del personaggio dell’affresco mi incuteva un certo timore quando ero bambino», disse Minhea. «Una foglia di vite, guardate qui, maggiore!» esclamò il tenente indicando un particolare raffigurante una piccola foglia di vite in avorio.
Fu sufficiente una leggera pressione sulla foglia perché il meccanismo scattasse, facendo apparire un cassetto segreto sul lato sinistro del mobile.
Sciarra, affascinato dalla perfezione del meccanismo, osservò l’involucro in seta all’interno del cassetto. Questa fu l’ultima immagine che vide, poi avvertì un dolore lancinante al capo e il buio dell’incoscienza lo avvolse.
Ottobre 1967
La villetta era una delle tante che si allineavano ordinate nei quartieri residenziali di Tel Aviv.
Asher Breil si guardò intorno soddisfatto, appoggiò in terra la borsa e si avviò verso le scale.
Il viaggio di ritorno da Bucarest era stato particolarmente lungo e faticoso: per avvalorare la copertura da lui assunta in Romania era stato costretto a una sosta di alcuni giorni a Ginevra. Le precauzioni non erano mai sufficienti quando si aveva a che fare con i servizi segreti di Ceausescu.
«C’è nessuno in questa casa?» chiese Asher ad alta voce.
Un grido proruppe dal piano superiore: «Papà!» esclamò il bambino prima di lanciarsi a capofitto giù dalle scale.
Asher rimase a osservare Oswald e il suo volto si illuminò per la gioia di rivedere il figlio.
I segni di quella rara forma di nanismo, tanto evidenti sul corpo del bambino, per fortuna non erano tali da rendere sgraziati i suoi movimenti: ma la sua crescita si era praticamente fermata quando il bimbo aveva otto anni.
« Hu-ha , papà, oggi è uno yom tovesh per me!» gridò Oswald cercando di cingere il padre con le sue braccia.
«Vedo che gli insegnamenti yiddish di Lilith Habar stanno facendo breccia. E comunque ‘buongiorno’ si dice yom tov e non tovesh », disse Asher stringendolo con affetto.
«Se vuoi cambiamo lingua. Sono pronto», disse Oswald ed emise una serie di suoni incomprensibili per chiunque, ma non per i componenti della famiglia Breil. Esprimersi tra di loro in quella specie di sistema cifrato era un gioco che li faceva sentire ancora più uniti. Il padre aveva detto a Oswald che quell’alfabeto era una versione semplificata di un metodo usato dagli italiani per inviare messaggi segreti nel corso della prima guerra mondiale.
«Posso salutare anche io l’eroe al ritorno dalla guerra?» chiese Aliah Breil, unendosi all’abbraccio e parlando anche lei con quello che tutti loro definivano, ricalcando il nome della celebre scrittura per ciechi, «l’alfabeto Breil».
Aliah aveva capelli corvini e ricci, un viso tondo dalla carnagione leggermente olivastra e, come Asher, un fisico alto e slanciato. Gli occhi neri si posarono in quelli del marito che, una volta rimasti soli, aveva assunto un’aria seria.
«Ti devo parlare, Aliah.»
La donna si raggomitolò sul divano e appoggiò la testa sulle gambe dell’uomo.
«Sono a disposizione, maggiore», disse in tono scherzoso.
«Credo che mi dovrò trasferire per qualche tempo in Romania, Aliah.»
«Qualche tempo che cosa significa? Giorni, settimane, mesi?»
«Con buone probabilità potrebbe trattarsi di anni. Mi hanno proposto il ruolo di referente per l’Istituto a Bucarest.» Tra i coniugi Breil non c’erano mai stati segreti: quando era necessario Aliah sapeva essere la donna più riservata che lui avesse mai conosciuto. Ma sapeva anche essere saggia ed equilibrata. Spesso il suo consiglio era stato determinante quando si era trattato di prendere decisioni importanti. E quella che Asher stava sottoponendo alla moglie era una questione di vitale importanza per l’intera famiglia.
«Vuol dire che tu sarai a capo dei nostri servizi di intelligence in Romania? È un incarico lusinghiero e importante», disse Aliah con un moto di compiacimento.
«Frena il tuo orgoglio, donna.» Asher sorrise. «Sarò il capo di una rete che non esiste: ci saranno una serie di collaboratori e qualche agente, ma tutto è ancora da costruire.»
«Sono contenta che i tuoi capi abbiano ascoltato le tue richieste. Sei stato tu a scegliere Bucarest come destinazione, non è vero?»
«Già, sembra che una misteriosa forza mi spinga verso lo Stato governato da Ceausescu, sin da quando sono precipitato col mio aereo nel deserto palestinese…»
«A noi hai pensato, Asher?»
«Certo, tu potrai seguirmi quando vuoi, come una qualsiasi moglie che raggiunge il proprio marito, funzionario di banca, in missione all’estero. Oswald invece dovrà prima terminare l’anno scolastico. Poi decideremo se trasferirci in maniera definitiva o continuare a fare i pendolari. Personalmente preferirei questa ultima soluzione, soprattutto pensando all’educazione di nostro figlio.»
«Molto bene, maggiore», rispose Aliah con un sorriso, sfiorando con le sue le labbra dell’uomo. «Ma adesso smettila di pensare alle trame del Mossad… non ci vediamo da giorni e…» La donna pronunciò le ultime parole nel linguaggio cifrato familiare, ma non riuscì a finire la frase: le forti braccia di Asher la avvolsero e le loro bocche si schiusero in un bacio caldo e sensuale.
Fecero l’amore con la passionalità e il desiderio di due giovani amanti. Poi si sdraiarono l’uno accanto all’altra, abbracciati.
«Ti amo, Asher. Con te in capo al mondo.»
«Già… in capo al mondo…» disse lui a bassa voce. La sua mente correva a ritroso sino a giungere all’inizio di quella storia…
Venezia, 1348
Nella sala che ospitava il Consiglio dei Dieci era appena terminata una riunione molto importante, anche se da quando la peste aveva incominciato a decimare la popolazione di Venezia non esisteva riunione degli organi di governo che non fosse di vitale importanza per la città. Stranamente Campagnola sembrava distratto e assente nel corso delle ultime assemblee: non si batteva con la sua usuale forza, che non erano pochi a chiamare perfidia.
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