Sull’imbarcazione regnava un’aria cupa e pesante: nessuno aveva voglia di parlare. Ciascuna delle tre persone che si erano raccolte intorno al corpo di Hito Humarawa pensava a quanto gli era debitore. E adesso il samurai sembrava prossimo alla morte.
Alessandro Crespi ora stava seduto a prua e giocherellava con l’anello d’oro dal quale non si era più separato dal giorno in cui Humarawa gliene aveva fatto dono, molti anni prima. Un mercante aveva tradotto il testo scritto in greco antico su un rotolo di papiro che era custodito nel cofanetto intagliato. Quello stesso in cui era conservato l’anello. Nel documento si diceva che l’oggetto era appartenuto a un imperatore romano. Ma anche lo stesso traduttore aveva detto a Crespi che il gioiello sembrava risalire a un’epoca precedente al periodo imperiale e che era sicuro di averne sentito parlare nelle Sacre Scritture. Quasi certamente era appartenuto a una persona di alto retaggio in Terra Santa, dato che recava incisa la stella a sei punte degli ebrei e che veniva chiamato «Anello dei Re».
La mente di Crespi corse al forziere: molti anni prima la sua amicizia con Humarawa lo aveva costretto a fuggire dal Giappone, ma erano riusciti a portare via buona parte del tesoro che apparteneva al samurai, caduto improvvisamente in disgrazia presso l’imperatore. Quel tesoro aveva consentito loro di stabilirsi a Venezia e di diventare immensamente ricchi. Da quella esperienza, Crespi aveva ereditato l’abitudine di non andare mai in nessun luogo senza portare con sé quella consistente fetta del suo patrimonio. Dopo aver respinto l’attacco nel palazzo veneziano, gli erano stati sufficienti pochi istanti per prelevare il forziere e poi imboccare il passaggio segreto che li avrebbe fatti sbucare dove una barca era sempre ormeggiata e pronta a salpare.
Wu, con un coltello, cercava di rendere sempre più appuntita l’estremità di un pezzo di legno. Sembrava che il lavoro lo occupasse molto, in realtà cercava in tutti i modi un alibi che lo costringesse a non alzare lo sguardo sul suo padrone: gli occhi del cinese erano gonfi di lacrime per l’agonia a cui doveva assistere impotente.
Solo Adil non faceva nulla per nascondere il suo dolore e piangeva silenziosamente, ma senza ritegno. Era preda di due sentimenti contrastanti, ma strettamente imparentati tra loro: la rabbia e il dolore.
La comparsa della terraferma non venne accolta con l’entusiasmo con cui di solito i marinai salutano dal mare la vista di luoghi abitati.
Mantenendosi sempre sottocosta, avevano diretto a sud, in direzione dei principati serbi, e oltrepassato la città di Spalato.
Erano sbarcati su una spiaggia a sud della città: per prima cosa dovevano assicurare a Humarawa le dovute cure. L’idea di Crespi, sia che il samurai si riprendesse, sia che non riuscisse a sopravvivere, era di riguadagnare l’Oriente, terra nella quale la ricchezza del mercante veneziano avrebbe garantito loro l’immunità.
Crespi, da solo, si era recato in città dove aveva pagato con oro e pietre preziose un carro, un ronzino malandato e un asino dal carattere indomabile. Avevano quindi caricato Humarawa sul carro e si erano messi in viaggio verso la città di Ragusa, il cui porto costituiva la tappa obbligatoria per le navi in rotta per Costantinopoli, a sua volta punto d’arrivo delle carovane dirette a Oriente. Grazie ai floridi rapporti commerciali che la città intratteneva con la Repubblica veneziana, Crespi confidava che qualche notizia riguardante i loro inseguitori li avrebbe prima o poi raggiunti. Dovevano stare all’erta perché sapevano bene, Crespi e Wu, che il fatto di muoversi portandosi appresso un ragazzino e un giapponese ferito li avrebbe resi facilmente riconoscibili.
Ma, negli ultimi tempi, i legami tra i principati e la Repubblica si erano molto diradati a causa della peste divampata a Venezia: il timore del contagio era capace di tener lontano anche il più avido dei mercanti o il più fedele tra gli alleati.
La peste… Nella concitazione della fuga si erano quasi dimenticati della minaccia orribile a cui erano scampati… ma erano riusciti a scongiurare il pericolo del Male?
Nella vicina città di Ragusa tutti la chiamavano «la strega» ed erano in molti a cambiare strada quando la incontravano sul loro cammino, nelle rare occasioni in cui la donna vi si recava.
Pochi conoscevano il segreto della sua vita: un marito che, reso pazzo dal vino e dalla vita dissoluta, era rientrato una notte e aveva cercato di sgozzarla, prima di ammazzare il loro figlio e di togliersi la vita. Miracolosamente la donna era sopravvissuta e aveva deciso che da quel momento avrebbe evitato il contatto con chiunque, annichilita dal grande dolore che si era insediato dentro di lei.
Erano trascorsi quasi sette anni da quando la strega si era costruita una casupola su di uno sperone di roccia ai limiti della spiaggia a ovest della città, e ora viveva in solitudine raccogliendo erbe curative che poi vendeva a un guaritore che passava da lei ogni due o tre mesi.
La vista del carro le fece alzare gli occhi.
«Avete acqua e bende pulite, donna?» chiese il veneziano seduto a cassetta. Accanto a lui stava un gigantesco orientale che teneva sulle gambe un bambino di una decina d’anni, più o meno la stessa età di suo figlio, prima che la follia del marito lo uccidesse.
«L’acqua è nel pozzo, servitevi pure. Bende, invece, non ne ho.»
«Ve ne prego, donna. Un nostro compagno è gravemente ferito.»
Così dicendo Crespi indicò il cassone del carro. La strega si sporse oltre la sponda e osservò a lungo l’uomo adagiato sul pianale.
«Quest’uomo ha la morte dipinta in volto», disse la donna. «A poco serviranno delle bende pulite. Fermatevi e consentitegli di riposare — e forse di morire — in pace e non tra i sobbalzi del vostro carro.»
«Non possiamo fermarci, donna. Vi ho chiesto delle bende e dell’acqua e non dei consigli.»
«Fate come volete. Pensavo voleste dare un po’ di sollievo al vostro compagno. Vi ho detto dove si trova l’acqua. Il resto non mi interessa.»
Così dicendo la donna volse loro le spalle ed entrò nella catapecchia.
«Certamente ci staranno dando la caccia», disse Crespi rivolto a Wu. «E non sarà la peste a fermarli.»
«Stavo ripensando a quanto ha detto quella donna: devo ammettere che ha ragione», rispose il cinese. «È inutile aumentare la sofferenza del mio signore. Dobbiamo trovare un luogo sicuro ove lasciarlo.»
«Sino a ora l’unica persona che abbiamo incontrato è lei. Non so perché dovremmo fidarci», disse Crespi pensoso.
«Se i nostri inseguitori riuscissero a raggiungerci per noi sarebbe la fine e sicuramente ce la faranno, rallentati come siamo dal dover trasportare Humarawa ferito. Anch’io non so se possiamo fidarci, ma sono certo che, in queste condizioni, siamo una preda sin troppo facile e identificabile», insistette Wu.
In quell’istante la donna uscì dalla capanna tenendo tra le mani uno straccio che avvolgeva una sostanza verdastra e fumante.
«Spalmategli almeno questo impacco di erbe sulle ferite: ne trarrà giovamento», disse la strega sempre nel suo modo rude.
«Volete dire che conoscete la scienza delle erbe medicinali?» chiese Wu, mentre osservava con interesse la ferita sulla carotide della donna, del tutto simile alla sua.
«È corteccia di salice in infuso con altre erbe lenitive. Se avete intenzione di continuare il viaggio ve ne darò una scorta: la medicazione va ripetuta ogni quattro ore.»
«Non sono sicuro di voler riprendere il cammino conducendo con noi il nostro compagno, donna. Siete disposta a prendervi cura di lui?» disse Crespi.
«Quell’uomo ha poche ore di vita», disse la donna. «Io non ne voglio sapere.»
«Non vi preoccupate. Fino a che potremo gli resteremo al fianco e vi aiuteremo qualora ce ne fosse bisogno. Per voi e per le vostre cure c’è un’intera borsa d’oro», disse Crespi.
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