Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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Quel giorno i due piantoni erano stati allontanati dalla camera occupata da Sciarra e da Petru, e la sera stessa Kimber Hadwin era seduta davanti al maggiore in un piccolo ma elegante ristorante sulla riva destra del Tamigi.

«State a sentire com’è andata a finire, Kimber…»

La giovane infermiera era vestita con un’eleganza che sottolineava doti tenute fino ad allora nascoste dall’asettico camice bianco. I capelli si muovevano come onde di un mare al tramonto, emanando riflessi rosati. Gli occhi chiari della giovane osservavano quelli dell’italiano. Le piaceva il distacco con cui Sciarra raccontava la sua storia: come un perfetto cronista, non indulgeva mai in espressioni di compiacimento per le sue imprese.

Kimber finì di mangiare, appoggiò le mani sul tavolo e si preparò ad ascoltare.

«Il colonnello Meyer ha lottato come una tigre all’interno dell’angusta stiva delle bombe, ma poi, ferito, ha dovuto cedere al giovane ufficiale rumeno. Proprio mentre Petru lo costringeva a precederlo verso il passaggio sotto al paiolato, Meyer ha avuto un guizzo, riuscendo a liberarsi dalla presa dell’altro. A quel punto l’ufficiale tedesco si è lanciato di nuovo nel vuoto, ma questa volta lo ha fatto davvero.

«Petru aveva appena riguadagnato la plancia, quando io mi sono messo a urlare: ‘Stiamo perdendo quota! Hanno colpito la sommità del cilindro, e uno dei diciannove palloni aerostatici a idrogeno è in fiamme. Quando anche gli altri verranno investiti dall’incendio, il dirigibile esploderà come un gigantesco deposito di gas. Credo che l’unica soluzione sia quella di raggiungere la terra il più presto possibile…’ Così dicendo ho girato con forza il timone ascensionale in modo che la prora dell’aeronave puntasse risolutamente verso il basso. La terra distava ancora qualche centinaio di metri e il fuoco divampava ormai ovunque, diffondendosi a gran velocità con ampie volute roventi. A mano a mano che il campo brullo sotto di noi si avvicinava, la velocità di caduta del dirigibile — ormai trasformatosi in una massa incandescente — aumentava in maniera incontrollabile.

«La gondola è atterrata con uno schianto a poca distanza da una postazione dell’antiarea. Le fiamme la avvolgevano e si propagavano ovunque, accompagnate da quello che sembrava il sibilo di un gigantesco rettile.

«Petru e io siamo usciti subito, correndo per allontanarci il più possibile dal dirigibile in fiamme.

«Alle nostre spalle l’immane palla di fuoco è esplosa col fragore di un tuono infernale. L’onda d’urto, benché attutita dalla distanza, ci ha fatto cadere, e solo allora ci siamo resi conto di essere feriti, per fortuna non gravemente. I fucili degli alleati inglesi, convinti di trovarsi di fronte ai membri dell’equipaggio di uno Zeppelin nemico, erano puntati contro di noi.»

Kimber era rimasta in silenzio, catturata dalla narrazione dell’italiano.

Quando erano usciti nel tepore della tarda primavera inglese, Kimber aveva accettato volentieri il braccio che Sciarra le aveva porto, e aveva stretto la mano dell’ufficiale.

Questo era stato l’unico contatto fisico tra loro, fatta eccezione per due teneri baci sulle guance che si erano scambiati quando Sciarra l’aveva salutata sulla porta di casa. Entrambi sapevano che difficilmente si sarebbero rivisti: l’indomani il colonnello Cantini sarebbe giunto a Londra, e Sciarra e Petru lo avrebbero presto seguito in Italia.

Il colonnello Cantini rivolse il saluto militare all’ufficiale medico e strinse la mano al parigrado inglese che lo aveva accompagnato nelle operazioni di «scarcerazione» dei due ufficiaH: era stato usato ogni riguardo onde evitare un incidente diplomatico. I due, che si erano dichiarati appartenenti al corpo degli alpini italiani, dopo essere usciti miracolosamente illesi dallo schianto dello Zeppelin erano stati tenuti sotto sorveglianza nell’ospedale militare di Londra.

Nel volgere di quattro giorni dall’arrivo di Cantini, sia Sciarra che Petru avevano potuto riabbracciare la libertà.

A dire il vero quei pochi giorni di forzato riposo erano stati utili per entrambi: Petru era spossato dalla tensione dell’impresa. A questo Sciarra aggiungeva il logoramento dovuto a un lungo periodo di prigionia.

«La licenza che vi è stata accordata, tenente Petru, è di tre settimane. E dato che la nazione ha bisogno della vostra opera al più presto, maggiore Sciarra, credo che nemmeno a voi potremmo concedere di più. Pensate di potervi rimettere in tempo?» chiese il colonnello Cantini.

«Credo proprio di sì, signore.»

«Bene, maggiore, sapevo di poter contare su di voi, ancor più adesso che gli americani hanno deciso di entrare in guerra per cacciare il nemico», concluse il colonnello. «Posso sapere dove andrete a ritemprarvi, maggiore?»

«Non lo so ancora con certezza, signore. Ma so che devo restituire al tenente Petru il tempo che mi ha dedicato. Se non erro, ha consacrato a me la sua prima settimana di licenza, riuscendo a tirarmi fuori da grossi guai. Sono in debito nei confronti del mio subalterno. Mi ha detto che vorrebbe andare in Romania a trovare la sua famiglia e mi ha chiesto di accompagnarlo: credo di doverglielo…»

«Farò finta di non aver sentito, maggiore. Voi sapete bene che la Romania è stata invasa dagli austroungarici da poco più di sei mesi. Una missione in terra nemica dovrebbe essere autorizzata e coordinata dallo stato maggiore…»

«Permettetemi, signore. Da quel che ho avuto modo di capire non si tratta di una missione di guerra, bensì di una visita familiare.» Quindi, consapevole che il suo superiore non gli avrebbe mai creduto, Sciarra cercò di addolcire la pillola. «Accanto a Petru anche la mia presenza non dovrebbe suscitare sospetti.»

«Già… portate i miei personali saluti ai parenti del tenente, maggiore», disse Cantini con ironia. «A ogni modo, se proprio volete oltrepassare il confine dovrete affrettarvi: una staffetta diplomatica sta partendo alla volta della Russia. Credo sia quello il fronte migliore per aggirare le linee nemiche.»

Kimber aveva corso sotto una pioggia fitta, sino a che l’ampia copertura di Victoria Station non l’aveva accolta. Sebbene fosse ormai arrivata aveva continuato a correre: non erano state le gocce d’acqua a farla andare di fretta.

Giunse al binario in tempo per vedere le lanterne rosse di via del treno che si allontanavano. Il fumo della locomotiva si andava diradando.

«Chissà se mai riuscirò a vederti ancora. Che Dio ti assista, Alberto», disse Kimber stringendo spasmodicamente la fettuccia della tracolla della borsetta. I suoi occhi erano velati di tristezza e sulle ciglia tremavano due grosse lacrime.

Sciarra era rimasto affacciato al finestrino, sino a che il vapore non aveva invaso lo scompartimento.

«Aspettava qualcuno, signore?» gli aveva chiesto il giovane corriere diplomatico che li avrebbe accompagnati sino alla loro destinazione.

«No, nessuno, volevo soltanto guardare la stazione mentre il treno si allontanava.»

Fu allora che gli parve di vederla, in fondo al binario. Non ne ebbe l’assoluta certezza, né mai l’avrebbe avuta, a meno che non avesse incontrato un’altra volta Kimber… Incontrarla un’altra volta… Se Dio l’avesse mai voluto.

Sciarra e Petru varcarono le linee nemiche dopo essere stati trasbordati da un pattugliatore russo molte miglia al largo della città di Costanza, sul mar Nero. Non appena ebbero abbandonato l’imbarcazione da pesca con la quale avevano raggiunto la riva indossarono gli abiti degli zingari rudari, una popolazione nomade della Romania.

«Credo sia giunto il momento di rivelarmi il motivo del nostro viaggio, tenente Petru, non credete?» disse Sciarra, allentando le briglie dell’asino che tirava il carro coperto. Alcuni conoscenti di Petru gli avevano procurato gli abiti e quel mezzo di locomozione che sarebbe stato loro utile per lasciare la città di Costanza. Era decorato con i fronzoli colorati con cui gli zingari erano soliti addobbare i loro carri.

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