Per quei particolari tipi di missione, il Mirage III del comandante di squadriglia Breil veniva configurato con cinque fotocamere alloggiate nel muso e due lanciatori di chaff, le sottili strisce di alluminio che, una volta lanciate dal velivolo, erano in grado di confondere i sensori di cui era dotata la maggior parte dei missili. Tre serbatoi ausiliari, per un totale di tremila litri, completavano l’equipaggiamento e riuscivano quasi a raddoppiare l’autonomia del velivolo, stimata attorno ai milleduecento chilometri.
Il Mirage III era una macchina da guerra perfetta, capace di raggiungere una velocità pari al doppio di quella del suono. Grazie alle sue ali di dimensioni abbastanza ridotte (otto metri e venti di apertura alare per quindici di lunghezza), l’aeromobile di costruzione francese disponeva di un’ottima manovrabilità. Il governo francese aveva deciso di far pagare a Nasser, primo ministro egiziano, alcune impopolari prese di posizione da cui erano sorte feroci dispute; per questo motivo l’aviazione israeliana era stata equipaggiata con quello che in molti consideravano uno dei migliori aerei da caccia in circolazione.
La quota operativa del Mirage si poteva facilmente attestare sopra ai diecimila metri, sino a raggiungere, come massimo, i diciassettemila. Era stato da quelle altezze che il capitano Breil aveva spesso ripreso le difese nemiche, i campi di addestramento o i movimenti di truppe: immagini considerate della massima importanza per i servizi di sicurezza.
Ora, però, il pulsante sulla cloche non comandava l’obiettivo di una delle potenti macchine da presa, ma un cannone da 30 millimetri e i due missili Matra R550 Magic.
L’obiettivo della pattuglia di Breil sarebbe stato l’appoggio aereo ad alcune divisioni corazzate intente a espugnare la città egiziana di El Arish.
Avevano sorvolato la strada costiera che costeggiava le sponde del Mediterraneo. Appena superata la città di Rafat, al confine con l’altopiano, i quattro Mirage si erano diretti verso il mare. Volavano in formazione a circa ottanta metri di altezza a una velocità di quattrocento nodi. A pochi chilometri dalla città virarono e si aprirono come i petali di una rosa, cogliendo di sorpresa le numerose postazioni antiaeree che si aspettavano un attacco dal mare.
I caccia giunsero in picchiata da sud, sbucando all’improvviso oltre il monte sovrastato da un’antica fortezza.
Asher Breil rimase a osservare quello che sembrava un plastico sfilare sotto la pancia del suo aereo. Dalla postazione di guida, infatti, le fasi della battaglia che si stava svolgendo a terra sembravano la riproduzione di un sofisticato war game : modellini di carri armati israeliani stavano sparando colpi di cannone a modellini di fanteria corazzata egiziana che tentavano invano di resistere.
Gli aerei israeliani compirono due passaggi sulla scena dello scontro, quindi ciascuno dei piloti comunicò al comandante il bersaglio prescelto.
Ricevuto da Breil il benestare, ogni pilota si gettò sulla sua preda con la stessa fredda determinazione di un’aquila decisa a sfamare i suoi piccoli.
Le cose parvero andare bene per gli israeliani sino a quando le ombre minacciose di quattro Sukhoi 7 non si avventarono sulla squadriglia di Breil per impedire il suo appoggio alle truppe d’assalto della Stella di Davide che stavano ormai occupando, di crocevia in crocevia, la città di El Arish.
Il Sukhoi 7 nasceva da un prototipo di aereo con ala a freccia che inizialmente non aveva riscosso grande successo. In seguito, con l’avvento di nuovi motori più potenti, era divenuto una macchina precisa e affidabile. Il caccia si era poi arricchito degli optional in uso tra i migliori velivoli dell’epoca, ed era andato a costituire i ranghi di una ventina di aviazioni militari sparse tra i paesi filosovietici.
Il Sukhoi 7 era un ottimo aereo, capace di raggiungere i millesettecento chilometri orari in assetto d’attacco, e in grado di trasportare almeno il doppio delle bombe di un Mirage.
I caccia egiziani piombarono su quelli israeliani.
«Attento, Shahak 12, attento. È dietro di te, liberati! Portalo ancora un poco in quota che arrivo per toglierlo di…» Breil non finì la frase: una palla di fuoco avvolse il Mirage Shahak 12.
Breil tirò a sé la cloche, la forza di gravità lo schiacciò sul sedile. L’aereo si esibì in una cabrata, salendo verticalmente di quota, quindi sembrò entrare in stallo. Un istante prima del momento di caduta di portanza della struttura alare, il capitano spinse al massimo la manetta, tirando contemporaneamente i flap verso l’alto. Il Mirage parve reagire come un puledro alla frusta: con una densa scia di fumo il propulsore Atar riuscì a riportarlo in assetto.
Quando le strutture del velivolo riguadagnarono assetto aerodinamico, Breil si trovava in coda al Sukhoi.
Il cannone da 30 millimetri cominciò a esibirsi col suono asettico che ogni arma assume nell’interpretare il suo canto di morte: una percussione ritmata, ripetitiva e logorante che nemmeno il boato che accompagnò il rogo dell’aereo egiziano riuscì a soffocare.
Tre dei quattro Sukhoi vennero abbattuti nel giro di qualche minuto. Il quarto si diede alla fuga, dileguandosi tra le nubi. Prima di far alzare il muso al suo caccia, Breil vide distintamente i soldati israeliani, al suo passaggio, alzare al cielo i fucili e le mani in segno di ringraziamento.
Chissà perché, al capitano Breil, mentre faceva ondeggiare le ali per rispondere al saluto, venne alla mente il sorriso del suo unico figlio, Oswald. «Forse», pensò Asher, «sto facendo questo proprio per lui.» Oswald aveva appena dieci anni ed era stato colpito da una rara anomalia genetica che gli avrebbe impedito di crescere. Asher e sua moglie Aliah avevano sofferto molto per questo, poi si erano rassegnati, compiacendosi per la spiccata intelligenza che, in Oswald, sembrava compensare qualsiasi difetto fisico.
«Spero soltanto di regalarti un mondo migliore, Oswald», pensò il capitano Breil, mentre allineava la rotta del suo caccia verso la base.
Quella che la Storia avrebbe poi chiamato «guerra dei Sei giorni» ebbe fine il 10 giugno alle 6.30 di un caldissimo pomeriggio mediorientale.
Sul sanguinante piatto della bilancia, oltre a centinaia di morti, i paesi arabi lasciavano ampie fette del loro territorio. Per mitigare l’onta della disfatta, i paesi sconfitti avevano cercato di ridimensionare l’occupazione da parte delle truppe con la Stella di Davide: «Gli israeliani hanno speso vite umane e mezzi per conquistare qualche chilometro di deserto», si disse allora.
Solo la Storia avrebbe potuto valutare l’inesattezza di questa affermazione.
Il capitano Asher Breil venne decorato il 22 giugno, assieme ad altri ufficiali israeliani fermamente convinti che non era soltanto una fetta di deserto quella che avevano espugnato, ma il diritto alla dignità che la Shoa — ultima in ordine di tempo — aveva negato al popolo ebraico.
Prussia, maggio 1917
Vista dall’alto, l’enorme struttura del doppio hangar sembrava una nave dalla forma squadrata in un mare calmo e senza onde.
Il gigantesco ricovero per dirigibili, che veniva confidenzialmente chiamato Toska dagli uomini della base, misurava duecentotrenta metri di lunghezza per sessantasette di larghezza e trentasette di altezza e offriva ricovero a due aeronavi L30; una di queste era stata appena sottratta al nemico da Sciarra e Petru.
Tra i militari della base circolava la voce che Toska fosse segnato dalla mala sorte. Dal 17 gennaio del 1916, data della sua ultimazione, era avvenuta una serie di gravi incidenti agli aeromobili: i dirigibili contrassegnati dalle sigle L18, L22, L24 e L17 erano andati completamente distrutti nel corso di tre incendi avvenuti o all’interno dell’hangar o nelle sue immediate vicinanze.
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