«E chi cazzo sarebbe questo Glakas?» aveva gridato al telefono il funzionario, intento a non calpestare preziosi indizi e evitare le ampie chiazze di sangue tra i rottami dei due pullman. «Va bene, capisco… i buoni rapporti con la CIA e l’aiuto che ci possono fornire… ho capito, signore… lo farò atterrare nel vicino campo sportivo e lo manderò a prendere con un’auto. Basta che quello yankee non venga qui a giocare all’ispettore dei telefilm. Siamo già nella merda sino al collo. Vedesse che disastro, signore.»
George Glakas non aveva nessuna intenzione di giocare al perfetto investigatore. Si era recato a Mississauga perché così gli era stato ordinato. Inoltre era curioso di vedere come avrebbero reagito gli islamici «occidentalizzati» a un attentato di cui erano proprio loro le vittime prescelte.
E lui sarebbe stato in prima fila a osservare la scena. Una scena fatta di urla strazianti, di persone che accorrevano sul luogo così come si trovavano, in abiti da casa o da lavoro, per scoprire di avere perduto in un attimo una moglie, un figlio o un parente stretto.
Glakas mostrò il tesserino di riconoscimento agli agenti canadesi che presidiavano il luogo dell’attentato. Poco prima di giungere nei pressi dei resti dei pullman ricevette una breve telefonata.
«L’esca è stata lanciata», gli sussurrò al telefono la voce di uno dei suoi migliori informatori.
Questo significava che, nei circuiti del mercato illegale, era stata fatta circolare la voce che c’era disponibilità di un grosso quantitativo di esplosivo, messo in vendita dopo il trafugamento di un camion militare russo.
«Chi era alla porta, Mame-loshen ?» aveva chiesto Oswald a Lilith Habar.
L’anziana donna aveva dipinta in volto un’espressione rassegnata che sembrava dire: «Me l’aspettavo».
«C’è una agente federale che chiede di te, Oswald», aveva risposto Lilith.
Oswald si era alzato dalla poltrona. Non sapeva perché, ma ebbe subito la sensazione che quella visita inaspettata lo avrebbe scosso dallo stato di torpore a cui si stava abbandonando.
Cassandra Ziegler era in piedi al centro della sala e tentava di vincere l’imbarazzo osservando i quadri alle pareti. Indossava un paio di pantaloni neri e un maglione a girocollo dello stesso colore. Ma la semplicità dell’abbigliamento non riusciva a nascondere l’avvenenza del dirigente dell’FBI.
La donna si mosse verso Oswald non appena questi varcò la soglia. Tenne la mano tesa verso il basso, per non mettere in imbarazzo il piccolo uomo. Oswald sentì le dita affusolate avvolgere le sue. Era una stretta amica e sincera.
«Sono Cassandra Ziegler», disse con il suo meraviglioso sorriso. «Attualmente rivesto l’incarico di addetta agli Affari pubblici per il direttore dell’FBI, Deuville. Credo che la sua esperienza ci potrebbe essere molto utile per scongiurare una grave minaccia, dottor Breil.»
Oswald fece cenno alla donna di sedersi. Breil ascoltò a lungo e con attenzione ogni parola di Cassandra, interrompendola ogni tanto solo per ricevere chiarimenti e delucidazioni. Quindi si passò la mano sul volto, quasi a voler cancellare l’abulia nella quale si era cullato e disse: «È strano, in poche ore il sigillo di Re Salomone è entrato ancora una volta di prepotenza nella mia vita e temo che quell’antico anello abbia il potere di portare con sé un mare di guai», disse scuotendo la testa con un’ingannevole aria di rassegnazione.
Oswald Breil, se voleva, poteva essere brillante padrone di ogni situazione. E Cassandra Ziegler sapeva che non doveva farsi sviare dalle movenze quasi infantili: il piccolo uomo che le stava davanti era considerato uno tra i più temuti al mondo.
«Quando lei è apparsa stavo proprio pensando che questa forzata inattività mi potrebbe dare l’opportunità di approfondire alcune antiche vicende di… ehm… famiglia, anche queste legate all’Anello dei Re. Coincidenza nella coincidenza, viene a chiedermi di aiutarla a far luce sugli attentati che hanno per firma proprio il medesimo sigillo. Credo che non ci sia modo per me di sfuggire al destino.» Breil allargò le braccia, abbandonando l’espressione sorniona, e ne assunse improvvisamente una seria e perspicace. I suoi occhi neri si serrarono mentre riprendeva: «Accetto, Cassandra. L’unico prezzo che chiedo in cambio è un aiuto per arrivare a conoscere l’aspetto ‘familiare’ legato a quel sigillo. Avremo modo e tempo per parlarne ma Lilith Habar, nostra padrona di casa e colei che mi ha fatto da madre, sostiene che proprio dell’Anello di Re Salomone le aveva parlato mio padre pochi giorni prima di morire, a Bucarest, in un incidente. Al momento della sua morte mio padre era l’inviato del Mossad in Romania. Io avevo quattordici anni».
Quest’anno pestifero incombe sul genere umano, e minaccia la luttuosa strage, e l’aria densissima favorisce la morte. Le spietate Parche si affrettano a spezzare i fili delle vite umane: tutti, se potessero, in una sola volta.
Francesco Petrarca
Altopiano del Sinai, 5 giugno 1967
Asher Breil aveva trentotto anni e comandava una squadriglia composta da quattro caccia intercettori Dassault-Breguet Mirage III, quando giunse l’ordine di decollare. Erano le 7.45 del mattino e Mordecai (Motti) Hod, comandante in capo della Israel Air Force, comunicò che l’operazione chiamata in gergo «Moked» era iniziata. Simultaneamente tutte le forze aeree d’attacco disponibili si alzarono in volo dai vari aeroporti militari e dalle piste nascoste nelle località desertiche di confine.
L’ordine era stato quello di dirigere verso ovest. Ulteriori istruzioni sarebbero state impartite nel corso della missione. E le istruzioni erano arrivate pochi minuti dopo il decollo: attaccare ogni aereo, postazione o mezzo militare egiziano, siriano, iracheno e giordano. L’obiettivo di ciascuna pattuglia venne comunicato in codice ai rispettivi comandanti.
Asher non si soffermò a chiedere ulteriori spiegazioni: la tensione era diventata insopportabile ormai da tempo, sfociando in quotidiani scontri lungo il confine e, il 7 aprile, nell’abbattimento di sei Mig siriani da parte della IAF.
Asher Breil, senza battere ciglio, diede ai suoi l’ordine di attaccare: conosceva la sensazione che prova un soldato di fronte alla battaglia. Il capitano Breil, prima di arruolarsi in aeronautica, aveva fatto parte dell’Haganah, l’esercito clandestino in vita prima che venisse costituito lo Stato di Israele, e non aveva dimenticato gli ideali e gli entusiasmi della sua giovinezza.
A questo pensava mentre portava il propulsore del Mirage al massimo.
Erano trascorsi vent’anni da quando Ben Gurion, il 14 maggio del 1948, aveva proclamato la nascita dello Stato di Israele.
Dopo essersi distinto nella difesa della neonata nazione, Asher Breil aveva riposto il fucile e si era apprestato a vivere in pace nella sua terra.
Ma quel desiderio era destinato a rimanere tale.
Così nel 1951, contemporaneamente alla richiesta di arruolamento nell’aeronautica, si era offerto di entrare a far parte dell’appena costituito Mossad: Breil in quei pochi anni si era reso conto che la pace in Israele equivaleva alla più palese delle utopie.
Le due carriere erano andate avanti in maniera parallela: i due padroni della sua vita non esercitavano attività concorrenziali, anzi tutt’altro. Il capitano era un ottimo pilota di caccia pronto a difendere i confini del suo paese e spesso veniva anche destinato a operazioni di ricognizione aerea a lungo raggio per conto del Mossad.
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