A un tratto il caccia sembrò inciampare in un invisibile ostacolo, mentre i traccianti della mitragliatrice manovrata da Petru accesero dall’interno la fusoliera dell’aereo, quindi il biplano esplose illuminando la notte.
Nella dozzina di minuti che seguirono, Alberto Sciarra cercò in tutti i modi di mantenere il controllo dell’aeronave, non sempre riuscendoci: il dirigibile ora puntava verso la terraferma, ora alzava il gigantesco muso verso l’alto, con impennate preoccupanti. Per fortuna il colosso si mostrava docile come un elefante ammaestrato e sembrava che perdonasse ogni errore dell’improvvisato pilota.
Quando Petru, attraverso il passaggio che aveva utilizzato in precedenza, fece ritorno alla cabina di pilotaggio, l’ufficiale italiano lo accolse con un sorriso. «Credevo voleste rimanere per sempre nella postazione di dritta, tenente. Complimenti per la vostra mira.»
«I tordi arrosto non mi sono mai piaciuti. Ma sono stato aiutato dalla fortuna, maggiore.» Il sorriso scanzonato non scomparve dal volto del rumeno neanche quando, osservando la strumentazione con la speranza di capirci qualche cosa, chiese: «E adesso che cosa facciamo?»
«Semplice», rispose Sciarra, «ci alziamo di quota e dirigiamo a ovest-sudovest: prima o poi incontreremo le linee amiche.» Così dicendo il maggiore agì sulla ruota e cercò di allineare il muso del gigante con l’ago della bussola. Lo Zeppelin sobbalzò per alcuni istanti, incerto, quindi seguì le istruzioni del pilota.
«Dando per scontate le vostre buone capacità di guida, vi informo che ci sono un paio di schieramenti che, in questo momento, farebbero carte false per tirarci giù: il nemico, al quale abbiamo soffiato un’arma invincibile, e gli alleati che non vedono l’ora di abbattere gli odiati dirigibili dell’impero austroungarico. Senza contare che non so come saremo in grado di affrontare l’atterraggio.»
«Ogni cosa a suo tempo, tenente. Per adesso stiamo tranquilli e godiamoci il panorama.»
Il sole radente stava incominciando a illuminare la striscia di terra che collegava la penisola di Westerland alla terraferma, mentre il dirigibile sorvolava le vaste insenature costellate di isole a ovest della Danimarca. La cittadina di Homum avrebbe rappresentato l’ultimo lembo di terra prima che lo Zeppelin L30 si inoltrasse nel mare del Nord.
La rotta che avevano tracciato aveva come meta le coste della Gran Bretagna. Ma i due fuggitivi avevano previsto anche la possibilità di atterrare sul suolo francese: il forte vento da settentrione, infatti, quasi certamente avrebbe fatto scarrocciare l’aeronave più a sud della rotta prestabilita.
«È più facile di quanto pensassi», disse Petru, quando si mise al timone per dare il cambio al suo superiore. «È sufficiente mantenere la prora allineata per duecentoquaranta gradi e questo mastodonte fa tutto da solo.»
Avevano abbandonato la costa danese da poco meno di due ore quando il maggiore, che spesso si volgeva verso poppa per controllare che non ci fossero aerei al loro inseguimento, alzò la voce quanto bastava per superare il rumore del vento che turbinava tra i vetri rotti. «Eccoli, ne stanno arrivando due. Aumentate al massimo la velocità, tenente Petru.»
Le sagome di due Albatros si stagliavano all’orizzonte come rapaci in cerca di prede.
«Stiamo già viaggiando a novanta chilometri all’ora, maggiore, penso di poter arrivare al massimo a novantacinque, con questo vento. Quei maledetti caccia sembrano molto più veloci di noi. Credo sia il caso che mi prepari a una nuova passeggiata all’interno di questo pallone.»
«Aspettate, tenente», rispose Sciarra consultando l’orologio sistemato sopra al tavolo da carteggio. «Non credo che la vostra ottima e fortunata mira potrebbe salvarci ancora da questa nuova minaccia. Spero di non essermi sbagliato nel calcolare la strada che abbiamo percorso. Che Dio ce la mandi buona.»
I due Albatros iniziarono a sparare quando erano ancora troppo lontani e continuarono a sprecare munizioni sino a che, quando furono a millecinquecento metri dalla poppa del dirigibile, invertirono la rotta.
In breve le sagome nere dei biplani scomparvero da dove erano venute.
Sciarra si distese, distolse lo sguardo dall’orologio e sedette sulla poltrona in pelle appartenuta al colonnello Meyer.
«Come facevate a saperlo, maggiore?»
«Non lo sapevo, lo speravo. Ricordo di aver letto che l’Albatros ha meno di un paio d’ore di autonomia e può raggiungere la velocità massima di centosessantaquattro chilometri all’ora. Ho fatto un rapido calcolo e, vista la distanza da noi percorsa, ho dedotto che i nostri inseguitori potevano ormai essere ben oltre il limite di sicurezza per il ritorno. Credo che nessun pilota tedesco, per quanto eroico, farebbe volentieri un bagno nel mare del Nord. Anche se abbiamo appena avuto una dimostrazione lampante di quanto sia disposto a sacrificarsi un ufficiale tedesco. Onore al valoroso colonnello Meyer.»
Navigavano senza intoppi quasi da dieci ore quando Petru strizzò gli occhi osservando un punto lontano: «Terra! Terra! Guardate là, maggiore… sembra… sembra l’estuario di un fiume».
Sciarra consultò ancora una volta la carta topografica e quindi concluse: «Dovrebbe trattarsi del Tamigi. Abbiamo scarrocciato solo di una decina di gradi sulla rotta prevista su oltre settecento chilometri, con un forte vento al traverso. È stato un vero successo».
«Londra, aspettaci. Stiamo arrivando!»
Visti da quella angolazione i palloni di sbarramento sembravano il percorso di un inestricabile labirinto tridimensionale. Sciarra fece alzare il dirigibile di trecento metri, calcolando a occhio il margine sufficiente per superare lo sbarramento. Fu allora che la contraerea inglese iniziò a vomitare fuoco nel cielo sopra Canvey Island, alla foce del Tamigi.
Il primo attacco che la città di Londra aveva subito risaliva al 31 maggio del 1915 ed era stato effettuato dallo Zeppelin contrassegnato con la sigla LZ38. Poi ne erano seguiti altri e sembrava che nulla potesse respingere la potenza distruttiva dei dirigibili.
Le città, con le loro strade illuminate, costituivano un bersaglio fin troppo facile per un’aeronave capace di restare immobile nel cielo per molti minuti. I londinesi erano in preda a una vera e propria psicosi nei confronti degli attacchi degli Zeppelin.
Sciarra e Petru, però, durante le lunghe ore della traversata, si erano preparati per tempo. All’interno del cilindro avevano rinvenuto una copertura di tela grezza lunga una ventina di metri: si trattava del telo che avvolgeva la gondola di comando quando l’L30 era in sosta.
Utilizzando un barilotto di olio da motori e un pennello, avevano scritto alcune parole a grandi lettere sulla tela chiara, sperando che quel messaggio fosse visibile anche da terra.
Il fuoco di sbarramento, costituito prevalentemente dai micidiali proiettili di contraerea di tipo Shrapnel, si era fatto via via più intenso, a mano a mano che risalivano il corso del fiume. A rendere ancor più difficoltosa la situazione, ci si era messo anche un forte vento al traverso che limitava la manovrabilità dell’aeromobile. Sciarra tentava comunque di mantenersi ad alta quota, anche se le raffiche facevano ballare il dirigibile come un galeone nella tempesta.
«Via adesso!» gridò Sciarra e, insieme a Petru, lasciò cadere le cime fuori bordo.
L’enorme telo, trascinato verso il basso da una serie di pesi, schiaffeggiò il vento più volte, prima di tendersi e mettere in mostra il messaggio: CESSATE IL FUOCO, LO ZEPPELIN È IN MANO AD ALLEATI, stava scritto in inglese sui due lati dello stendardo di fortuna.
«Speriamo che qualcuno degli artiglieri là sotto ci stia guardando con un binocolo», disse l’ufficiale italiano, indicando il limite nord della cittadina di Gravesend, dove era alloggiata una batteria antiaerea.
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