Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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I colpi sotto di loro si andarono improvvisamente diradando, sino a cessare del tutto.

«Gli inglesi devono essere riusciti a leggere il messaggio», disse rincuorato Petru.

Il maggiore italiano mise mano al timone ascensionale e la prua del dirigibile puntò verso la terraferma: «Adesso dobbiamo soltanto cercare di atterrare sani e salvi e senza danneggiare lo Zeppelin: per gli alleati questo dirigibile costituisce una fonte impagabile di informazioni. Che Dio ce la mandi buona…» Ma la frase fu interrotta da una serie di deflagrazioni provenienti dal centro abitato sotto di loro.

I due uomini si scambiarono uno sguardo perplesso: non ci voleva molto ad accorgersi che quelle esplosioni erano causate da un bombardamento e che i grappoli di bombe provenivano proprio dal ventre dell’L30.

«Il colonnello Meyer!» esclamarono entrambi simultaneamente.

L’ufficiale tedesco aveva solo finto di gettarsi nel vuoto dalla porta di accesso della gondola, e si era aggrappato ai tubi in acciaio che ne preservavano il fondo dagli eventuali urti in fase di atterraggio.

Meyer, sebbene ferito alla spalla destra, si era lasciato dondolare sino a darsi lo slancio per infilarsi all’interno del vano ove erano alloggiate le bombe: il portello era stato aperto dai fuggiaschi quando avevano bombardato la pista di decollo della base di Tønder.

Raggomitolato in quell’angusto alloggio, il colonnello Meyer aveva trascorso tutto il tempo del viaggio pregustando il momento in cui l’avrebbe fatta pagare a Sciarra e al suo compare.

E il momento era finalmente venuto. Erano rimaste una trentina di bombe, tra dirompenti e incendiarie.

Dal suo gelido nascondiglio, posto esattamente sotto il pavimento della cabina di pilotaggio, era riuscito ad ascoltare buona parte dei discorsi tra i due fuggitivi: anche quando avevano gioito perché gli inglesi avevano sospeso il fuoco di contraerea. Il colonnello tedesco aveva sentito i motori diminuire di giri e intuito che l’aeronave aveva iniziato le operazioni di atterraggio.

A quel punto Meyer era entrato in azione: la sua macchina volante non sarebbe caduta nelle mani del nemico.

L’ufficiale tedesco aveva aperto la botola sul doppiofondo della gondola di comando, quindi aveva osservato soddisfatto le quattro bombe incendiarie cadere al suolo: le deflagrazioni avevano decretato la ripresa delle ostilità. Una pioggia di proiettili di contraerea illuminarono il cielo. Ora lo Zeppelin era ampiamente alla portata dei cannoni inglesi.

«Fermiamolo!» gridò Sciarra della Volta.

«Lasciate che vada io, maggiore. Credo sia meglio che voi rimaniate ai comandi e che facciate il possibile per evitare i proiettili della contraerea inglese.» Così dicendo l’ufficiale rumeno aprì la botola che il maggiore gli aveva indicato: da quella si accedeva alla parte inferiore della gondola e al vano bombe.

16

Venezia, 1348

Il contagio era dilagato tra i poveri e i senzatetto scampati al terremoto del 25 gennaio: la precarietà delle condizioni igieniche, aggravatasi dopo il sisma, alimentava il diffondersi della peste.

Negli ultimi giorni di marzo il Maggior consiglio della Repubblica di Venezia aveva affidato a tre Savi il compito di stilare un piano d’emergenza: erano stati sufficienti pochi giorni di epidemia per riempire i cimiteri. Ormai non si sapeva più dove seppellire i morti.

I tre Savi emisero il loro responso quattro giorni dopo l’incarico. Le misure da tenere erano rigorose e inflessibili. Tra le altre cose si acconsentiva ai parenti dei malati poveri o indigenti di accompagnare i loro cari sulle isole di San Marco, Sant’Erasmo e San Leonardo Fossamala, destinate a lazzaretti e a giganteschi cimiteri. Tutti sapevano che quello sarebbe stato un viaggio di sola andata.

Ed era soltanto l’inizio.

La cappella era situata allo stesso piano della camera da letto del padrone di casa.

Angelo Campagnola si inginocchiò di fronte all’immagine della Vergine e si fece il segno della croce. Sperava che la preghiera fosse in grado di sollevarlo dal peso di un terrore cieco che lo attanagliava da giorni e che non riusciva a domare.

Forse quelli che morivano erano i più fortunati, pensò il nobile veneziano: non avrebbero dovuto combattere con la paura e con l’incertezza del futuro.

L’attesa era in grado di far vacillare anche la più solida delle menti: aspettare impotente che il morbo si impadronisse del proprio corpo e lo consumasse fra atroci sofferenze nella più desolata solitudine poteva portare chiunque alla follia.

«Vergine santa», disse Campagnola in un sussurro che assomigliava al sibilo di un serpente. «Tu sai quanto io ti sia devoto. A te chiedo di non farmi cadere nella stretta del demone che sta decimando gli abitanti della mia città.»

Benché si dicesse che le donne, e soprattutto quelle incinte, fossero le più esposte al contagio, in realtà la peste colpiva indiscriminatamente, senza tenere conto dell’età o dello stato di salute delle sue vittime.

A dire il vero qualcuno riusciva a sopravvivere alle febbri, alle setticemie e ai bubboni, ma erano davvero pochi. Quei pochi, però, parevano immuni da un successivo contagio e buona parte dei «graziati» andava ad arricchire i mai sufficienti ranghi degli addetti al trasporto dei cadaveri verso i luoghi di sepoltura o, più spesso, verso le pire dove ardevano i corpi.

Campagnola osservava il lento incedere della cocca: da alcuni giorni diverse navi da commercio erano state requisite per passare di canale in canale e di casa in casa a raccogliere morti e moribondi, allontanando così il soffio pestifero da chi non era ancora ammalato.

«Te ne prego, santissima Vergine, preservami dal male.»

Anche così, chino tra le candele e di fronte alle immagini sacre, Campagnola, più che un fedele raccolto in preghiera, sembrava un emissario di Satana che stesse cospirando ai danni di Maria.

Il nobile veneziano alzò lo sguardo sulla statua. Il volto della Madonna era disteso in un sorriso, gli occhi azzurri guardavano un punto all’infinito, mentre quelli dell’uomo mandavano lampi crudeli.

«Ho capito quello che tu mi chiedi, Madre mia. Vuoi che io fermi il figlio di Satana. Lo so, quello è il figlio del Demonio e sta seminando la morte in città. Tu mi vuoi dire che sino a che la progenie del Diavolo riceverà accoglienza, per questa città non ci sarà pace. Vuoi che io lo elimini e tu così compirai il miracolo di far cessare la pestilenza, non è vero?»

La nebbia si alzava dall’acqua immobile dei canali come l’anima che lascia il corpo di un uomo senza vita.

E molte anime, in quel momento, stavano iniziando il loro viaggio per tornare a sedersi al fianco degli angeli: la peste non si concedeva pause.

Quasi metà della popolazione sarebbe morta nel giro di pochi mesi.

I dodici uomini si unirono all’equipaggio della cocca, uguale a quello delle molte che venivano usate per raccogliere i morti: indossavano una mantella nera e avevano il volto nascosto dalle falde di grandi cappelli. Ciascuno di loro portava al fianco una grossa spada.

Alessandro Crespi chiuse la finestra che si affacciava sul Canal Grande. Osservò compiaciuto i vetri con cui aveva fatto recentemente sostituire i battenti in legno. La sua era una delle poche case a Venezia a godere di questa lussuosa novità: i vetri consentivano un migliore isolamento termico e, soprattutto, permettevano alla luce d’illuminare i locali che altrimenti sarebbero stati avvolti nel buio per i molti mesi del lungo inverno veneziano.

All’interno del palazzo regnava il silenzio. Il mercante era l’unico a essere ancora sveglio, essendosi attardato a controllare la distinta di una spedizione appena giunta dall’Oriente.

Crespi guardò la cocca che ormeggiava lungo la riva degli Schiavoni, a poca distanza dalla sua abitazione. Conosceva lo scopo a cui erano ormai destinate quelle imbarcazioni: la peste faceva paura a tutti, anche a un uomo freddo e abituato al rischio come il mercante veneziano.

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