La stanza segreta era grande poco meno di una normale autorimessa. Anche all’interno di quella stanza tutto era meticolosamente in ordine. Alcuni ripiani di metallo occupavano l’intera parete destra. Sulle mensole erano disposti diversi pani d’esplosivo al plastico, detonatori, inneschi e micce sufficienti a radere al suolo parecchi isolati. L’attentatore andò alla scrivania, posta in fondo alla stanza segreta. Estrasse da un cassetto una scatola in avorio e la aprì. L’Anello dei Re emise un bagliore sinistro. L’uomo prese una stecca di ceralacca e cominciò a scaldarla al calore della fiamma di un accendino: l’attentatore si apprestava ad apporre il suo sigillo a un nuovo messaggio di morte. Le gocce incandescenti indugiarono qualche istante, poi caddero sulla carta, formando una bolla fluida del colore del sangue. Lo stemma del Re si impresse a testimonianza della sua macabra promessa.
Un tremito, simile a una scarica elettrica, l’aveva scossa quando aveva aperto la lettera. Cassandra Ziegler la stringeva ancora nella mano destra, mentre entrava nell’ufficio del direttore Deuville.
«Era un po’ di tempo che non si faceva vivo, il nostro amico», disse la donna, accomodandosi sulla poltroncina che il suo superiore le indicava.
«Per l’esattezza dallo scorso marzo», suggerì Deuville, e si accinse ad ascoltare l’ultimo messaggio del terrorista.
Cassandra appoggiò gli occhiali sulla punta del naso e lesse: « Gloria a Colui che di notte trasportò il Suo servo dalla Santa Moschea alla Moschea remota di cui benedicemmo i dintorni, per mostrargli qualcuno dei Nostri segni. Egli è Colui che tutto ascolta e tutto osserva » , quindi la donna recitò a memoria la sura dalla quale era stata tratta quella frase. «Si tratta del verso iniziale della sura diciassettesima chiamata dell’ Al Isrâ’ , ovvero del ‘Viaggio Notturno’.»
«Hai idea di che cosa ci voglia dire quel pazzo?»
«Assolutamente no, a parte il riferimento al viaggio, che sembra sin troppo palese. Il Giusto ci ha insegnato che può colpire in ogni angolo del pianeta e in ogni momento: difficile prevedere dove e quando. Però, prima di passare alla concorrenza la posta che il Giusto continua a recapitarci, ho provveduto a far avere l’originale agli esperti della Scientifica. Spero che almeno questa volta ci possano essere d’aiuto.»
«Stai lavorando su qualche indizio in particolare, Cassandra?»
«No, nessuno. O meglio, molti… troppi indizi: almeno trentamila militari americani sono compatibili, erano cioè in condizione di raggiungere facilmente le località dove il Giusto ha colpito con i suoi attentati. Senza contare qualche migliaio di civili. Se aggiungi i non americani, il numero di papabili Giusti si alza esponenzialmente. Restringendo il campo il più possibile — ad esempio pensando che debba trattarsi di un militare o comunque di persona esperta nel maneggio di esplosivi — la cifra dei sospettabili si mantiene oltre le dodicimila unità sparse sulla faccia del pianeta, appartenenti a diverse razze. Credo non sarebbero sufficienti tutti i nostri effettivi per tenerli sotto controllo.»
«Questo vale sia per noi che per i nostri cuginetti incaricati delle indagini. Mi piacerebbe proprio sapere se alla Central Intelligence Agency sono più a buon punto rispetto a noi.»
Glakas sorrise, osservando il timbro di protocollo della lettera: una missiva della massima importanza aveva impiegato ventisette ore per passare dalla sede dell’FBI alla scrivania del suo ufficio a Langley, in Virginia. Il dirigente della CIA ne era certo: in quelle ventisette ore la busta e il foglio erano stati oggetto di una rigorosa vivisezione da parte del reparto scientifico dei federali.
Glakas avrebbe potuto scommettere qualsiasi cosa sul fatto che i cugini non avevano trovato nessun indizio: il Giusto era scrupoloso e attento. Sembrava impossibile potesse cadere nel banale errore di dimenticare materiale organico o altre tracce su una delle sue asettiche lettere.
Se l’attentatore non aveva intenzione di scoprirsi, sarebbe toccato a lui lanciare esche… senza fretta, però. Adesso Glakas voleva togliersi il gusto di osservare dalla prima fila lo spettacolo pirotecnico che il Giusto aveva organizzato per la prossima rappresentazione.
Oswald Breil sedeva sulla sedia, con i piedi che penzolavano a un paio di centimetri dal pavimento. Era rilassato e assaporava il piacere di quelle giornate passate insieme ai suoi due vecchi genitori adottivi.
«Tu non sai, Oswald, quanto riempia di gioia il mio cuore il fatto di averti qui con noi. Ti ho immaginato tutti questi anni a metter radici a Hotzeplotz , e invece adesso sei qui… come quando eri bambino. Che grande felicità.» La signora Habar aveva usato il termine che in lingua yiddish significava una via di mezzo tra «in capo al mondo» e «Dio sa dove».
«Non mi sgriderai per non aver detto il Mairev , le preghiere della sera, Mame Lilith, vero?» rispose Oswald.
«No di certo, Oswald. Dio ti ha fatto dono di una grande saichel , una immensa intelligenza che tu hai messo al servizio della nostra gente, sino a portarti alla guida dello Stato di Israele. Noi siamo fieri di te, Oswald», disse Lilith, con la voce rotta dalla commozione.
«E io sono grato a Dio che mi ha dato due genitori come voi, Mame-loshen », disse Oswald stringendo le mani della donna tra le sue. Da sempre la chiamava così, da quando, bambino, gli aveva insegnato una lingua che lui sentiva davvero materna.
Cassandra Ziegler osservò il foglio inviato dal Giusto al Federal Bureau of Investigation. Alzò gli occhi verso il cielo, come se da lassù qualcuno potesse darle la soluzione dell’enigma. E forse fu dal cielo che le arrivò il suggerimento. Il suo sguardo si fermò su un punto indefinito nel muro, quindi Cassandra si rivolse al suo superiore: «Credo… credo… che avremo bisogno di un vero esperto in materie mediorientali, qualcuno che conosca la mentalità di chi è in guerra da sempre con gli arabi. Cerca di capirmi, Conrad, non sto parlando di uno dei tanti criminal-psicoanalisti, ma di qualche cosa di più…»
«Sì, certo», ironizzò Deuville, «e che magari sia dotato di sagacia e acume, capacità di indagare a fondo, arguto e, per finire, abbia notevoli conoscenze in ogni campo…»
«Esatto, direttore. Proprio così!»
«E dove andresti a trovare Superman? A Smallville?»
«In questo momento mi risulta che si trovi a Denver, in Colorado, ospite dai suoi genitori adottivi. Forse l’unica cosa che gli manca è il fisico di Clark Kent, ma credo che il nostro uomo possieda tutti gli attributi richiesti per lottare ad armi pari con il Giusto. Hai capito di chi sto parlando, Conrad, non è vero?»
Sul pullman turistico c’erano quarantanove persone, per lo più donne col capo coperto dal chador e bambini. Un secondo pullman, del tutto identico al primo, ma con a bordo una decina di passeggeri in meno, lo seguiva a distanza ravvicinata.
La giornata era stata intensa e piacevole: la gita alle cascate del Niagara organizzata dal Centro islamico canadese si era rivelata un successo.
I due mezzi svoltarono a sinistra in Winston Churchill Boulevard e imboccarono South Sheridan Way. Ormai pochi metri li separavano dalla sede del Centro, nella città di Mississauga, nell’Ontario.
Da lì erano partiti alle prime luci dell’alba di un giorno festivo per la comunità musulmana: «Tanto poi in pullman si riuscirà a recuperare un po’ di sonno perduto», avevano pensato in molti.
Il grandioso spettacolo delle cascate, la gita sul barcone tra gli spruzzi di schiuma, il pranzo al sacco, la visita ai negozi di souvenir avevano reso il viaggio indimenticabile.
Quando tutti erano risaliti sui pullman per rientrare a Mississauga, l’umore della comitiva era alle stelle.
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