Nel momento in cui i sensori identificarono il trecentesimo impulso, settanta metri della strada si impennarono come nei fotogrammi al rallentatore di un film, ondularono per qualche secondo, quindi tutto venne scagliato in aria dalla violenza dell’esplosione.
Quando l’asfalto, il terreno e le rocce ricaddero a terra, si schiantarono sui corpi degli sfollati.
L’attentato uccise centoventi persone innocenti, o meglio, colpevoli di voler sfuggire al giudizio sommario dell’evolversi della guerra in Iraq.
«La ringrazio, agente speciale, per la sua arguzia.» Definire ironico il tono con cui il caposettore Glakas si rivolgeva a un suo sottoposto suonava come un eufemismo.
«L’intera CIA si era fermata nell’attesa che il suo acume investigativo ci indicasse una pista da seguire. Sono spiacente di comunicarle che eravamo giunti alle sue stesse conclusioni da qualche mese… forse anche di più. Almeno da dopo il primo attentato in Medio Oriente, a Hormuz», continuò Glakas con fare acido. «Uno screening delle persone che potevano trovarsi nei pressi della scena degli attentati è stata una delle prime indagini che ho richiesto. In questo momento, credo si trovino nella regione qualche cosa come duecentomila militari americani, senza contare i ‘trasfertisti’ per lavoro, i diplomatici e gli uomini d’affari. Ognuno di essi è libero di muoversi a proprio piacimento all’interno delle zone oggetto di attentati. Tutto questo supponendo che il Giusto sia un cittadino americano, altrimenti il numero dei potenziali attentatori raggiungerebbe cifre iperboliche.»
Deidra Blasey si assestò sul capo il cappello a falde larghe dei marine e si girò in modo da prestare il fianco alle raffiche di vento. La polvere rossa vorticava attorno a lei, infilandosi come un insetto molesto in ogni zona scoperta della sua pelle.
Jordan Cruner le si avvicinò da dietro, e le piazzò sotto al mento un microfono ad alta sensibilità, la cui parte terminale era costituita da una voluminosa palla gialla in materiale fonoassorbente. Intanto un cameraman iniziava la ripresa.
«Quanto durerà questa guerra, colonnello Blasey?»
Deidra era stata presa alla sprovvista, altrimenti avrebbe opportunamente evitato quel ficcanaso di Cruner. «Non credo che un mio parere personale, Cruner, riesca a dare una risposta esauriente alla sua domanda. Altro genere di pareri, quelli ufficiali di un colonnello dei marine, non sono autorizzata a fornirli.»
«Vuol dire che…»
Cruner non finì la frase. Il razzo terra-terra iracheno esplose a pochi metri da loro. Prima di perdere i sensi, Deidra distinse la telecamera, che saltò per prima, poi fu la volta della testa del cameraman, spazzata via dal tronco in una frazione di secondo.
Il dolore che Deidra sentiva alla gamba non le pareva insopportabile. Con l’ultimo barlume di lucidità la donna si chiese come mai stesse perdendo i sensi per così poco.
Tønder, Prussia, maggio 1917
Alberto Sciarra della Volta pensava che una corte marziale avrebbe tenuto le proprie assise con maggiore rispetto per le formalità. I tre ufficiali austriaci che si trovò davanti sembravano, invece, avere solo una gran fretta. Sedevano dietro un tavolo da pranzo all’interno della sala mensa.
La sentenza che condannava l’ufficiale italiano a morte venne letta senza enfasi né esitazione dal colonnello Meyer, il più alto in grado tra i componenti della improvvisata corte.
Quasi certamente, identica sorte sarebbe toccata agli altri prigionieri graduati, compagni dell’italiano nel corso dello sfortunato tentativo di fuga. Sciarra li aveva visti, ammanettati, accedere sotto scorta a una stanza attigua alla propria.
L’ufficiale italiano era rimasto impassibile per tutto il tempo della lettura del verdetto. Aveva manifestato un moto di stizza solamente quando lo avevano accusato di essere l’ideatore del piano di fuga che comprendeva il sabotaggio della fabbrica per la produzione di idrogeno: sapeva bene che in quell’impresa, che era costata molte vite, lo aveva trascinato il capitano Padget. Il traditore Padget.
La porta di una delle celle di reclusione ruotò sui cardini senza emettere alcun cigolio.
Il maggiore Sciarra udì delle grida provenire dal corridoio: un uomo era stato prelevato e opponeva resistenza ai carcerieri che lo stavano conducendo via a forza.
Sciarra riconobbe subito l’accento inglese di un sergente maggiore dello Yorkshire che aveva partecipato al tentativo di fuga.
Poi tutto tacque fino al momento in cui una voce ruppe il silenzio. «Avete sentito, maggiore?» chiese la voce di un sottufficiale, anche questo di nazionalità britannica, rinchiuso nella cella vicina. «Hanno portato al patibolo il sergente Govert. Dopo toccherà a me.»
La scarica di fucileria echeggiò tra le pareti anguste della prigione.
«Fatti coraggio!» furono le sole parole che Sciarra riuscì a pronunciare, prima che la grande porta a sbarre del corridoio venisse aperta di nuovo.
«Soltanto voi e io abbiamo visto chi è stato l’infame. Scommetto che adesso è di nuovo nella baracca e sta cominciando a coltivarsi la fiducia dei prigionieri appena arrivati per poi tradirli alla prima occasione. Dio lo maledica.
«Addio, maggiore», disse il sottufficiale quando i soldati lo fecero alzare.
«Addio», rispose Sciarra e, in preda all’angoscia, attese gli spari che avrebbero posto fine alla vita del suo compagno di prigionia.
Dopo sarebbe toccato a lui.
L’attesa della morte logora il corpo e la mente più di ogni cosa. L’ufficiale italiano aveva chiesto perdono per i suoi peccati a un Dio nel quale non aveva mai creduto sino in fondo. Poi si era seduto con le spalle contro il muro e il volto verso la porta: voleva guardare negli occhi l’uomo che lo avrebbe condotto al patibolo. Ma nessuno si era più presentato a prelevarlo.
Era ormai buio e Sciarra tentò di immaginare che ore fossero. L’italiano pensò che, data l’ora tarda, la sua esecuzione sarebbe stata rinviata al giorno seguente: i prigionieri avrebbero dovuto assistervi e la sua morte sarebbe stata un monito per tutti.
Sentiva i passi ritmici e pesanti della sentinella davanti all’ingresso della prigione. La notte scorreva lenta: si rese conto che erano avvenuti due cambi della guardia. Dovevano essere passate almeno otto ore quando, all’improvviso, il passo del carceriere si fermò di colpo e l’italiano percepì un rumore sordo. Poi di nuovo il silenzio.
La chiave entrò nella toppa, chi stava aprendo la porta parve esitare un istante. L’ufficiale italiano si schiacciò contro il muro: forse si era sbagliato e avevano deciso di fucilarlo nottetempo. Sciarra si insospettì quando si accorse che il nuovo arrivato non portava alcuna lampada: l’operazione era avvenuta al buio.
«Maggiore Sciarra», chiese una voce ben conosciuta anche se sommessa.
«Sono io», rispose l’ufficiale italiano, incredulo.
«Non avrete pensato che avrei lasciato l’uomo a cui devo la vita languire in una fetida prigione? Sono venuto a portarvi via, comandante!»
«Petru!? Tenente Minhea Petru, che cosa ci fate qui?»
«Sono arrivato su un’auto di rappresentanza, con una divisa da capitano-ispettore austriaco. Grazie alla mia ottima conoscenza del tedesco mi hanno creduto quando ho chiesto i documenti necessari per effettuare l’ispezione alla contabilità della base. Finora nessuno ha avuto sospetti su di me, anche se credo che non ci metteranno molto a trovare il cadavere del vero ispettore dietro a una collinetta a un paio di chilometri da qui. Presto, abbiamo poco tempo, maggiore.»
Il colonnello Meyer riagganciò la cornetta del telefono con un moto di stizza. Il pilota tedesco uscì dall’ufficio che occupava quando non si trovava in missione a bordo del dirigibile L30 impugnando il calcio della sua Mauser. Qualche secondo più tardi le sirene del campo presero a suonare.
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