Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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«Hanno trovato il corpo dell’ispettore prima di quanto potessi prevedere», disse il tenente Petru preoccupato. «Cerchiamo un nascondiglio. Al riparo sarà più facile pensare a come uscire da questo guaio.»

Era passata circa un’ora da quando era scattato l’allarme. Gli austriaci avevano scoperto l’evasione del condannato a morte e avevano collegato il falso ispettore alla fuga del maggiore Sciarra. Dei due fuggiaschi non c’era però traccia e un plotone di militari stava procedendo al rastrellamento della zona occupata dai dirigibili.

Meyer impartiva ordini con il suo tono rude. Sembrava su tutte le furie: la sua pelle chiara aveva assunto toni rossastri e i baffi a manubrio, ai quali dedicava una cura maniacale, sembrava fossero passati nel vortice di un uragano. La canna della pistola Roth-Steyer 8 millimetri premuta sotto il suo naso non ebbe certo il potere di placare l’agitazione dell’ufficiale.

«Adesso il colonnello Meyer ci porterà in salvo, non è vero?» Meyer, dall’espressione che vide balenare negli occhi di Minhea Petru, si rese conto che il falso ispettore non aveva nessuna intenzione di scherzare.

La sagoma scura di uno dei due dirigibili gemelli L30 si stagliava nel buio. Era ancorato al traliccio come una nave alla banchina del porto. La più grande delle quattro gondole, quella dove si trovava il ponte di comando, era a poca distanza dal terreno: lo Zeppelin era pronto a prendere il volo per una nuova missione di guerra.

«Non ce la farete mai!» disse Meyer quando si rese conto che, sotto la minaccia delle armi, i due fuggiaschi lo stavano conducendo verso il dirigibile.

«Se voi non aveste scoperto le mie finte credenziali, signor colonnello, adesso noi non saremmo qui, ma sull’auto di servizio di un ispettore dell’esercito austroungarico. Purtroppo il mio piano è andato a monte e quindi siamo stati costretti a scegliere questa soluzione di ripiego», disse Petru con un’espressione scanzonata. Quindi, premendo la pistola contro il ventre dell’ufficiale tedesco aggiunse: «Diteci che cosa dobbiamo fare per far alzare questo gigante da terra. E fatelo subito, colonnello Meyer».

I militari della base sembravano animali in gabbia: le loro armi erano impotenti contro quei due uomini pronti a tutto, anche a uccidere con un colpo alla nuca il loro comandante, un eroe dell aviazione.

Gli austriaci tenevano i moschetti puntati, obbedienti all’ordine che era stato loro impartito di non aprire il fuoco: negli anni gli Zeppelin avevano dimostrato a tutti quanto il gas volatile e la struttura che lo imprigionava fossero amici del fuoco. Un solo colpo di fucile nel punto sbagliato sarebbe stato in grado di provocare un disastro.

Non appena i prigionieri giunsero all’interno della gondola, Petru ordinò a Meyer di accendere i sei propulsori. Qualche minuto più tardi, l’aeronave L30 si librava come uno scuro fantasma nel nero della notte nordica.

Sciarra e Petru rimasero a guardare i militari immobili sotto di loro. Solo quando la gigantesca sagoma fu fuori dal tiro dei moschetti, chi comandava gli uomini a terra diede l’ordine di aprire il fuoco.

12

Venezia, febbraio 1348

La festa era in pieno svolgimento nella sala illuminata da oltre duemila candele, quando Campagnola si fece vicino a Crespi.

«Mi hanno detto che il povero Giròn era un vostro buon amico, Crespi», disse il nobile veneziano a bruciapelo, non distogliendo mai lo sguardo da quello del mercante.

«Quanto vi è stato riferito non corrisponde al vero, signoria. Conoscevo il Bioca come molti in città. Ma non esisteva tra di noi alcun vincolo di amicizia. Mi dispiace comunque che abbia fatto una fine così brutta», rispose Crespi senza abbassare gli occhi.

«Già, lo hanno trovato con l’osso del collo spezzato e il volto massacrato che galleggiava in un canale. Anch’io sono dispiaciuto per lui.»

«C’è da dire che Donato Bioca non era una persona molto amata.»

«Se ogni persona poco amata dovesse subire analogo trattamento, Crespi, le calli e i canali non basterebbero a contenerne i corpi.»

«Già, signoria. Anche per voi non deve essere facile rivestire un ruolo come quello a cui dedicate ogni attimo della vostra nobile vita.» L’ironia di Crespi era talmente velata che forse il Campagnola non la percepì neppure.

«Vi sono grato per il riconoscimento. Ma cambiamo discorso. Che dice Humarawa, adesso che la minaccia del Muqatil è definitivamente scomparsa?»

«Come tutti gli uomini, anche Hito Humarawa desidera riposarsi: ha passato anni a dare la caccia per il mare a quel pirata. Adesso credo voglia soltanto godersi un po’ di tranquillità.»

«Tranquillità e fama. Tutti i veneziani hanno eletto il vostro amico giapponese e il suo gigantesco compare a salvatori della patria. Ma io ho la sensazione che persone come Humarawa non riescano a stare troppo a lungo lontano dalla battaglia. E alcuni fatti sembrano darmi ragione.» Il tono astioso non sfuggì a una persona attenta come Alessandro Crespi.

«Quali fatti, signoria?»

«Quale motivo avrebbe avuto per condurre con sé… quel giovane scudiero, mi pare si chiami Adil, se Humarawa non avesse l’intenzione di riprendere prima o poi le armi?»

«In guardia, Crespi!» si disse il mercante. «La questione sta davvero a cuore a Campagnola. E il cuore di Campagnola è arido come un lago prosciugato dal male. Come fa a essere già a conoscenza del nome che Humarawa ha attribuito non più di pochi giorni or sono alla figlia del Muqatil?»

Crespi cambiò discorso, quindi sfoggiò un sorriso di circostanza e si allontanò dal nobile, dopo averlo salutato.

Nelle prime ore del mattino seguente, poco lontano dal luogo ove veniva tenuta la festa, l’affondo di Adil superò la guardia dell’avversario e si arrestò a un soffio dal ventre del cinese.

«Molto bene, Adil!» disse Wu non riuscendo a nascondere la soddisfazione sotto la sua espressione severa. «Continui a fare notevoli progressi nel maneggiare le armi. Sei davvero un ottimo allievo.»

Adil sorrise e ripose la wakizashi con la quale si stava allenando.

Humarawa entrò nella sala d’armi del palazzo, seguito da Alessandro Crespi.

«Adesso basta, Wu. Lascia che… il giovane Adil si riposi qualche istante, prima che arrivi il suo precettore a impartirgli lezioni di lettura e di conto.»

I giorni passavano velocemente nel palazzo nobiliare sulla riva degli Schiavoni. Celeste viveva giornate piene: anche l’arte della guerra era per lei un gioco, ma vi si impegnava sino in fondo. A volte pensava a quale reazione avrebbe avuto suo padre nel vederla con una katana in mano intenta a menar fendenti o a parare i colpi che Wu e Humarawa si limitavano ancora a mimare. Quasi certamente il Muqatil sarebbe stato fiero di lei, anche se per la sua piccola Celeste avrebbe forse sognato un futuro diverso.

Ogni volta che pensava ai suoi cari, la sua mente continuava a sentire un’incurabile malinconia: erano ormai trascorsi mesi da quando era giunta a Venezia, ma le attenzioni e l’affetto che i suoi ospiti le riservavano non riuscivano a cancellare il ricordo dei volti sorridenti dei suoi genitori.

Spesso quei volti le apparivano in sogno. La maggior parte delle volte si trattava di fugaci apparizioni, ma quella notte non fu così: nel dormiveglia, madida di sudore, si convinse che sua madre, Diletta, fosse proprio lì davanti a lei e le stesse parlando.

«Guardati da tuo nonno, piccola mia. Anche se nelle tue vene scorre il suo stesso sangue, stai lontana da quell’uomo. Non esiterebbe a ucciderti, solo per cancellare l’onta del passato.»

La madre le appariva con la stessa espressione sofferente che aveva sul letto di morte.

«La vita ha in serbo per te grandi soddisfazioni», continuò Diletta nel sogno. «Ma dovrai conquistare ogni cosa a caro prezzo e, quando tutto ti sembrerà perduto, il Muqatil uscirà dalle tenebre per illuminare il tuo cammino. Il morbo che mi ha portata via sta arrivando a reclamare vite anche a Venezia.»

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