Giròn si inchinò dinanzi al suo benefattore: grazie a quell’uomo poteva continuare impunemente a dare sfogo alla sua indole malvagia.
«Voglio sapere ogni cosa del ragazzino dagli occhi blu che il giapponese conduce con sé», disse l’uomo riccamente vestito.
«Avete già qualche idea, signoria?» chiese Giròn, sperando che le sue indagini fossero facilitate da una spiata o dalla presenza di qualche prova compromettente.
«Niente, Giròn. Solo una serie di congetture e sensazioni», rispose Campagnola.
Nella mente rude di Donato Bioca ogni richiesta di Campagnola corrispondeva al più vincolante degli ordini. Pochi minuti più tardi una nebbia sottile accolse Giròn nelle calli della città.
«No. Non così, Celeste!» disse con aria severa Humarawa, «ricordati che la parata è importante quanto l’affondo: una buona difesa è la migliore arma per sferrare un attacco.»
Così dicendo il giapponese afferrò pazientemente l’elsa della katana che la bambina teneva in mano e impartì una breve ma esauriente lezione di scherma alla figlia del Muqatil.
«Chiedo scusa, signore», disse il gigantesco Wu, che era rimasto in disparte sino a quel momento, «è meglio che il nostro apprendista abbia un nome maschile, dato che come assistente scudiero lo abbiamo presentato alla città. Se continuate a chiamarlo — o a chiamarla — Celeste, alimenteremo nuovi sospetti e in breve tempo la verità verrà a galla con conseguenze che proprio non riesco a immaginare. Lo sguardo che Campagnola ha rivolto alla bambina non mi è affatto piaciuto.»
«Hai ragione, Wu», disse il giapponese, quindi si esibì in un buffo inchino rivolto a Celeste. «Dunque, damigella, a voi il piacere della scelta. Con quale nome vorreste essere chiamata dai veneziani?»
Nell’ascoltare quelle parole, la faccia deturpata di Wu si distese in un sorriso: non aveva mai visto il suo signore allegro come da quando Celeste era entrata nella loro vita.
«Adil!» esclamò quella senza esitazione. «Nella città di Tabarqa c’era un bambino di nome Adil con cui giocavo…» All’improvviso alcune nubi scure parvero affollare i suoi pensieri. «La peste si è presa anche lui, insieme ai miei cari.»
«Forza, Adil», la distolse Humarawa. «Mettiti in guardia e preparati a far vedere al maestro i tuoi progressi.»
Con la massima serietà e con la determinazione di chi non vuole cedere alla sofferenza, Celeste, o meglio, Adil, riprese la posizione di guardia.
Humarawa parve studiare per un istante i lati deboli del piccolo avversario che gli stava di fronte, quindi fece balenare in aria la sua lama. Il rumore secco del metallo provocò un sorriso nel duro volto del giapponese: la sua allieva aveva risposto con una perfetta parata al suo affondo.
Quando la lezione di scherma fu terminata, Humarawa e Wu si ritrovarono da soli nella vasta sala d’armi, al piano terreno della casa di Alessandro Crespi.
«Tu credi che sia giusto, mio signore?» chiese il cinese.
«Giusto che cosa, Wu?» disse il samurai di rimando.
«Avviare una bambina all’uso delle armi. Forse sarebbe meglio che apprendesse l’arte del canto e del ricamo.»
«Un precettore sta già impartendo a Celeste lezioni di aritmetica e di scrittura. Voglio che alla piccola sia data la migliore istruzione possibile ma, se le mie previsioni si riveleranno esatte, ritengo che anche la conoscenza delle armi le sarà utile. Nel mondo in cui dovrà vivere bisogna sapersi difendere per non soccombere. Credo che anche suo padre converrebbe con me che stiamo facendo la cosa giusta.»
«Strana cosa il destino, mio signore. Chi avrebbe mai detto che proprio tu ti saresti preso cura dell’unica figlia del tuo nemico.»
«Il Muqatil è stato per me qualcosa di più di un nemico: è stato la ragione della mia vita. Per lui, devo essere sincero, non ho mai provato odio, ma profondo rispetto. Non credo che incontreremo mai più un uomo così leale.»
«Lo penso anch’io, mio signore. Così come sono convinto che, da quando il Muqatil non c’è più, una parte della vostra vita se ne è andata con lui. Per fortuna è arrivata questa bambina a riempire le vostre… le nostre giornate.»
«Via, Wu, smettila di dire eresie…»
La voce di Crespi, sopraggiunto nella sala d’armi, interruppe la conversazione dei due asiatici.
«Un certo Bioca, un tipo poco raccomandabile del quale il Consiglio dei Dieci si serve per le sue più losche missioni, oggi mi ha avvicinato in San Marco.»
«Non c’è bisogno che tu mi dica quello che il Bioca voleva sapere…» disse Humarawa.
«Già, quello che in città tutti chiamano il Giròn mi ha fatto un sacco di domande su Wu, ma il suo vero interesse era Celeste.»
«Sei riuscito a tenere a freno la curiosità di quell’uomo?» chiese Humarawa, assumendo un’espressione che avrebbe messo all’erta chiunque avesse cercato di sbarrargli il passo. «A questo proposito volevo dirti, Alessandro, che da oggi la bambina verrà chiamata, da tutti noi e in ogni occasione, col nome di Adil.»
«Mi sembra una decisione saggia, Hito. Di fronte alle incalzanti domande del Giròn non sapevo che nome attribuire al giovane apprendista. Comunque credo di essermela cavata piuttosto bene.»
Una barca che trasportava legname transitò in quel momento lungo la riva degli Schiavoni. L’uomo che remava parve rallentare il ritmo della vogata quando giunse dinanzi al palazzo di Crespi. Il marinaio lasciò la presa dei remi, si asciugò il sudore con un panno lercio e sbirciò con un interesse sospetto l’approdo della casa, a cui si accedeva direttamente dal canale mediante una grande porta in legno, in quel momento spalancata.
Donato Bioca aveva visto abbastanza: non avrebbe avuto bisogno di chiavi per entrare nel palazzo. Il Giròn conosceva modi molto più sbrigativi, anche se spesso si trattava di sistemi non proprio legali. Quella sera ne avrebbe sperimentato uno.
Il palazzo che Alessandro Crespi aveva comprato qualche anno prima occupava l’isolato posto tra riva degli Schiavoni, ramo Pescaria, la calle del Forno e il Canal Grande. La facciata che si apriva lungo il «corso» principale della città lagunare era finemente decorata. La casa era appartenuta a un nobile ossessionato dal vizio del gioco e per questo caduto in disgrazia. Crespi, astuto mercante e oculato gestore delle risorse di Humarawa, aveva pensato bene di farsi avanti col nobile giocatore ed era riuscito ad accaparrarsi l’elegante dimora a un prezzo assai conveniente.
Celeste godeva di una certa libertà: le era stata assegnata una piccola stanza che non doveva dividere con nessuno, posta al terzo dei quattro piani della casa. La finestra lasciava penetrare i raggi del pallido sole invernale.
Ascoltando i discorsi dei domestici aveva capito che negli ultimi anni una morsa di gelo aveva avvolto l’Europa: gli inverni erano sempre più rigidi e le estati brevi e piovose.
Il pensiero della fanciulla corse ai tanti senzatetto che il terremoto aveva provocato. Per fortuna la casa di Crespi aveva retto alle scosse del 25 gennaio.
Celeste si ritirò nella sua stanza. Provava quasi vergogna ad ammetterlo, ma quel genere di vita non le dispiaceva affatto: la bellezza di Venezia la metteva di buonumore. Humarawa, Crespi e persino il rude Wu erano molto gentili con lei. Gli insegnamenti che riceveva riempivano le sue giornate.
Ma nonostante ciò, ogni tanto la malinconia e il rimpianto la vincevano. «Padre mio, madre mia…» mormorava mentre un velo di tristezza calava sui suoi occhi, «non so da dove mi stiate guardando adesso, ma mi pare di sentire le vostre amate mani che mi guidano e mi proteggono.»
La bimba si alzò, si passò una mano tra i capelli neri e crespi. Celeste non si era ancora abituata ai capelli corti. Guardò la sua immagine riflessa nella tinozza di rame nella quale era appena stata versata l’acqua calda e incominciò a spogliarsi.
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