Giunto in America, Glakas aveva cambiato l’ellenico nome di Iorgos con il più americano George e si era preparato a quel genere di rapida integrazione che solo gli Stati Uniti sono in grado di garantire a chi cerca di ricostruirsi una vita. Affermare che George «Iorgos» Glakas c’era riuscito corrispondeva a una assoluta verità.
I tre dipartimenti nei quali è diviso il braccio operativo della CIA rispondono al nome di Intelligence, Operazioni e Scienze e tecnologie. Nell’organigramma dell’agenzia governativa, ogni dipartimento è diviso in settori. George Glakas occupava, a soli trentaquattro anni, il prestigioso ruolo di capo della squadra antiterrorismo.
«Anche se», confessò ancora Glakas a se stesso, commentando le azioni del Giusto, «è ora che anche quei figli di puttana musulmani imparino a conoscere che cosa sono capaci di fare le bombe terroriste: quasi ogni giorno degli innocenti sono vittime delle loro mani assassine. E molti di questi non potranno mai raccontare a nessuno che cosa si prova a morire per mano di un fanatico integralista islamico.»
Glakas ripiegò la lettera della Commissione.
Tønder, Prussia, maggio 1917
Era passato quasi un anno da quando gli austriaci l’avevano catturato sulle Dolomiti, ma il maggiore Sciarra non si sarebbe mai abituato alle faticose e interminabili giornate da forzato; anche se agli ufficiali prigionieri, soprattutto a coloro che gli austroungarici ritenevano degni, venivano destinati compiti meno gravosi di quelli assegnati ai soldati semplici.
Insieme a lui c’erano almeno una cinquantina di deportati di guerra: per la maggior parte inglesi e francesi. Sciarra era il più alto in grado e, secondo le regole del campo, a lui spettavano il comando sul gruppo di prigionieri e la responsabilità di ogni loro atto dinanzi ai carcerieri.
Grazie alla perfetta conoscenza del tedesco, il maggiore italiano era stato incaricato dell’organizzazione della manutenzione e delle pulizie dell’intera base: gli austriaci erano certi che alla fine della guerra — una guerra che sicuramente avrebbero vinto — il fatto che dei prigionieri fossero venuti a conoscenza d’importanti segreti militari non sarebbe stato in alcun modo rilevante.
La sorveglianza, in realtà, non era molto opprimente: il gruppo nella base d’aviazione di Tønder godeva di una certa libertà.
Il campo era simile a una piccola città, dotato di una fabbrica per la produzione di gas, di una centrale elettrica, di serbatoi interrati per il combustibile e di una serie di edifici che erano stati ultimati all’inizio della guerra. Le due baracche che ospitavano i prigionieri si trovavano nella stessa area in cui alloggiavano i seicento militari in servizio nella base. A poca distanza dal recinto in filo spinato che circondava le baracche svettava un grande capannone che veniva chiamato Toska: un gigantesco hangar nel quale trovavano ricovero le aeronavi.
Ogni mattina, domeniche incluse, Alberto Sciarra della Volta e il plotone di prigionieri vi venivano scortati da una mezza dozzina di soldati. Quella era la prima e più importante tappa della loro quotidiana routine. Seguivano poi le pulizie degli uffici, delle altre aviorimesse, dei dormitori, dei magazzini e dei piazzali. Alcuni degli uomini venivano anche utilizzati per mettere in ordine gli alloggi ufficiali. Le sentinelle restavano a sorvegliare i prigionieri con le armi spianate sino al termine di un massacrante turno di lavoro che non durava mai meno di quattordici ore.
Sciarra sedette per terra, poggiando la schiena alla parete del capannone. Estrasse la gavetta Negedly in ferro stagnato e affondò il cucchiaio nella brodaglia incolore con lo stesso entusiasmo con cui un aspirante suicida pensa al nascere di una nuova vita.
Gli occhi dell’ufficiale italiano corsero lungo i centonovantotto metri dello Zeppelin L30. Si soffermarono su ognuno dei sei motori Maybach da duecentoquaranta cavalli ciascuno, capaci di spingere quel sigaro di ventiquattro metri di diametro a una velocità massima di cento chilometri orari. Nei diciannove palloni aerostatici disposti all’interno dell’enorme fusoliera erano contenuti oltre cinquantaseimila metri cubi di una miscela di idrogeno: gas infiammabile e detonante. La pericolosità di questa sorta di bomba innescata trovava la sua giustificazione d’essere non appena il dirigibile si librava in volo: l’aeromobile si alzava con leggerezza, era facilmente manovrabile e possedeva una notevole autonomia. Quella immensa balena argentata aveva tutte le caratteristiche per diventare una nuova e temibile arma da guerra.
Il volo inaugurale era stato effettuato a maggio dell’anno precedente e, da allora, l’aeronave L30 aveva portato a termine una trentina di missioni di ricognizione e ben dodici attacchi aerei.
Ma c’era un segreto di cui erano partecipi soltanto gli uomini della base, prigionieri inclusi: lo Zeppelin contrassegnato con la sigla L30 aveva un gemello. Entrambe le aeronavi portavano gli stessi numeri identificativi — LZ62 — sul ventre e sulla coda: in tal modo sarebbero state un ottimo mezzo per confondere il nemico ignaro. La segnalazione di due attacchi, a breve distanza di tempo ma in due luoghi diversi, da parte di quello che pareva lo stesso dirigibile, avrebbe tratto in inganno riguardo alla velocità del velivolo e alle sue reali prestazioni.
Inoltre gli obiettivi dei dirigibili erano per lo più totalmente disarmati di fronte a quel tipo di incursioni: gli Zeppelin giungevano sulle aree da bombardare all’improvviso, e restavano a quote che rendevano pressoché vana ogni reazione dell’antiaerea. Nel capiente vano dell’L30 venivano caricate circa cinquanta bombe ad alto potenziale, tra dirompenti e incendiarie. Nessun aereo avrebbe mai potuto trasportare un tale carico distruttivo.
Il maggiore Sciarra si sentiva suo malgrado complice del successo di quella perfetta macchina da guerra, anche se il suo personale contributo consisteva nel maneggiare una ramazza e dirigere una squadra di spazzini.
Assorto com’era, non si accorse subito del sopraggiungere di un suo compagno di prigionia.
Grénoire Padget era un capitano belga, catturato nel 1914 quando le truppe austroungariche, nel corso dei primi giorni di guerra, avevano invaso il suo paese. Sedette a fianco dell’italiano distogliendolo dai suoi pensieri. Entrambi osservavano uno dei militari che, con piglio marziale, puntava il moschetto Mannlicher sul drappello di prigionieri che si apprestava a godere dell’agognata mezz’ora di riposo per il pranzo.
«Se avessi io per le mani un bel fucile ti farei vedere, caro il mio aguzzino», disse sottovoce il capitano belga e poi aggiunse: «Mi hanno detto che tutto è pronto per domani sera, maggiore».
«Voi sapete che non sono d’accordo, capitano», rispose Sciarra in francese. «Ma non posso certo dissociarmi dal progetto. Ritengo che un tentativo di sabotaggio che non preveda un piano di fuga accurato equivalga per noi tutti a un sicuro suicidio.»
«Avete ragione, maggiore Sciarra, ma la nostra esistenza, relegati a pulire la merda degli austriaci, non si può certo chiamare vita. Preferisco tentare di manomettere queste macchine dispensatrici di morte che non lucidare i cessi e gli stivali degli ufficiali della base.»
A quel punto il carceriere diresse l’arma verso di loro e gridò con aria minacciosa, scandendo bene le parole: «Dovete parlare tedesco! Alla prossima parola straniera vi sbatterò in cella di rigore per una trentina di giorni. Voglio proprio vedere se la dieta a pane e acqua e il buio vi convinceranno a rispettare le regole!»
Sciarra e il capitano Grénoire Padget interruppero la loro conversazione: una eventuale punizione da parte dei carcerieri e la conseguente defezione anche di un solo partecipante avrebbero potuto compromettere l’intero piano.
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