Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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«Dov’è Grénoire?» La voce dell’ufficiale italiano era un sibilo, appena percettibile nella notte scura, ma i toni erano secchi e affilati come una lama d’acciaio.

«Non lo so, signor maggiore», rispose un artigliere inglese. «Era dietro di me sino a poco fa…»

Non potevano fermarsi, non adesso. Sia che il capitano belga ci fosse, sia che non ci fosse.

Il piano che lo stesso Padget aveva contribuito a progettare prevedeva un’incursione all’interno dell’impianto di produzione d’idrogeno. Con rudimentali cariche esplosive si sarebbero dovuti sabotare i grossi cilindri d’acciaio che contenevano il gas altamente infiammabile con cui venivano riempiti i serbatoi dei dirigibili. A seguito dell’incendio che si sarebbe sviluppato, l’intero contingente di soldati della base sarebbe stato impegnato in tutt’altre faccende che quella di dedicarsi alla ricerca di alcune decine di fuggitivi. Da quel momento in poi i prigionieri sarebbero stati liberi di correre il più lontano possibile.

Sciarra si era subito detto perplesso rispetto all’attuabilità del piano: sempre ammesso che fossero riusciti ad abbandonare la base di Tønder e sfuggire alla rete di controlli e posti di blocco, come avrebbero potuto trenta prigionieri che ancora indossavano la tenuta da reclusi raggiungere le linee amiche? Il primo avamposto alleato distava diverse centinaia di chilometri.

L’unico aspetto positivo del piano era costituito dal sabotaggio alla fabbrica di produzione di idrogeno che avrebbe obbligato a terra i dirigibili per parecchio tempo.

Sciarra, inizialmente, aveva manifestato i suoi dubbi, poi si era uniformato al volere della maggioranza: pareva che quegli uomini non sopportassero più la prigionia e fossero disposti a qualsiasi azione, anche la più pericolosa, pur di oltrepassare il filo spinato che soffocava la loro vita.

Il colonnello Eberhard Meyer era il pilota di dirigibili più decorato dell’aviazione teutonica: anche per questo motivo era stato nominato comandante della base di Tønder. Aveva sostituito il colonnello di fanteria Carroll, uomo debole e privo del carisma necessario a mandare avanti una tra le strutture più importanti per le strategie militari dell’impero.

Meyer era un ufficiale tutto d’un pezzo, pronto a mettere da parte qualsiasi scrupolo pur di raggiungere i suoi scopi. Il colonnello fece un cenno all’uomo che stava in piedi dinanzi a lui ed entrambi uscirono dall’ufficio del comandante.

La notte scura li avvolse e i due vennero affiancati da un drappello composto da una trentina di fucilieri.

Il buio sarebbe stato loro amico: un fedele complice che avrebbe celato i movimenti dei trenta fuggitivi.

Qualche giorno prima Pilou, un simpatico caporale di cavalleria francese, aveva trafugato una cesoia nell’hangar, l’aveva custodita nella patta dei calzoni e adesso la stava estraendo con la sacralità con cui un prete alza le ostie sull’altare.

«Taglia!» ordinò Sciarra.

Il primo dei cavi venne tranciato di netto dalla cesoia; seguirono gli altri, sino a quando nel reticolato non fu aperto un varco sufficiente per far passare un uomo alla volta.

I fuggitivi avevano concordato che, dopo il sabotaggio ai serbatoi di idrogeno, avrebbero cercato di manomettere anche i tre Zeppelin che si trovavano ormeggiati a mezz’aria, ancorati a una specie di ventosa d’acciaio che avvolgeva buona parte delle prore. Quelle che parevano immense creature argentate in preda a un sonno profondo erano sorvegliate da due uomini armati, in quel momento distratti da una bottiglia di liquore e da un cane randagio.

Sciarra osservò la disposizione delle sentinelle lungo il perimetro: sulle garitte tutto sembrava tranquillo e nulla lasciava presagire che i loro carcerieri sospettassero qualcosa. I potenti fari all’acetilene, usati anche nelle postazioni di contraerea, erano spenti.

I prigionieri avevano incominciato a sentire il profumo della libertà non appena si erano lasciati alle spalle la recinzione delle baracche: pur sapendo che dovevano ancora portare a termine la parte più pericolosa del piano, il semplice gesto di recidere il filo spinato li aveva fatti sentire più vicini alla fuga.

Sciarra alzò la mano destra e fece cenno ai suoi di fermarsi: dovevano restare nascosti dietro il muro dell’hangar nel quale si trovavano i sette biplani Albatros D3. Lì avrebbero ripassato un’ultima volta le modalità di assalto alla fabbrica di gas, distante poche decine di metri.

Gli uomini si erano appena radunati quando il fascio di luce ferì l’oscurità della notte illuminando ogni anfratto del campo.

La voce del colonnello Meyer si levò alta, amplificata dal megafono in rame che l’alto ufficiale stringeva nella mano sinistra: «Maggiore Sciarra della Volta, dite ai vostri di evitare inutili spargimenti di sangue. Siete circondati. Arrendetevi!»

Pilou, come tutti del resto, era rimasto colpito fisicamente da quella luce bianca: gli occhi gli dolevano e, istintivamente, alzò la mano che ancora stringeva la cesoia per pararsi la vista.

Il primo colpo di fucile ruppe il silenzio sino all’istante in cui il sibilo della pallottola non si spense tra gli occhi del caporale francese.

Poi si scatenò l’inferno: gli austriaci, appostati da ore, nel timore che Pilou impugnasse un fucile avevano aperto il fuoco sui trenta prigionieri disarmati. Simili a squali accecati ed eccitati dal gusto del sangue, i fucilieri continuavano a premere il grilletto senza nemmeno prendere la mira.

La pioggia di proiettili investì il drappello, schegge incandescenti si alzavano dal selciato, molti dei fuggiaschi caddero sotto i primi colpi.

Il maggiore italiano rimase in piedi agitando le mani, ma le sue parole: «Cessate il fuoco, siamo disarmati!» non riuscivano a sovrastare il frastuono degli spari.

La sparatoria durò alcuni interminabili secondi, poi si spense.

Sciarra si tastò le spalle, le braccia e le gambe: era miracolosamente illeso. Sorte peggiore era toccata ad alcuni dei suoi compagni di prigionia: nove di loro non si sarebbero rialzati mai più.

Pochi istanti più tardi l’ufficiale italiano veniva ammanettato e stava per essere condotto verso la cella di rigore quando un secco comando del colonnello Meyer diede ordine al plotone che lo scortava di fermarsi.

«E così abbiamo mal riposto la nostra fiducia in voi, maggiore Sciarra della Volta», disse Meyer riponendo nella fondina la sua pistola Mauser 7,63 ancora fumante. «Credevamo che la vostra lealtà di ufficiale fosse…»

«Sono un ufficiale e come tale ho giurato fedeltà al mio paese, colonnello. Quel giuramento è l’unico a cui io intenda prestare fede», lo interruppe l’italiano.

«Bene, ma questa vostra encomiabile fedeltà vi costerà cara, maggiore. L’evasione e il sabotaggio sono puniti con la morte.»

Fu allora che Sciarra comprese il motivo per cui Meyer poteva parlare anche di un sabotaggio che nessuno, ancora, aveva compiuto, ma che costituiva il nodo focale del loro piano: nella luce bianca del faro, il maggiore italiano distinse chiaramente la sagoma di Padget che tentava di nascondersi tra i militari austriaci ai quali aveva appena consegnato, con un vile tradimento, i suoi compagni.

9

Venezia, febbraio 1348

In dialetto veneziano il termine «giròn» viene usato per indicare la parte tonda del remo prima che questo, allargandosi, vada a formare la pala. Donato Bioca si era guadagnato quel soprannome sin da piccolo, da quando aveva percosso a sangue, con un remo usato come un bastone, alcuni suoi coetanei. L’abitudine alla violenza non era scomparsa con l’età, anzi: protetto dalla copertura fornitagli dall’essere al servizio del Consiglio dei Dieci, era diventato sempre più aggressivo, pericoloso e poco raccomandabile.

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