Poi i medici avevano allontanato la sua bambina.
Celeste ora ricordava le parole con cui suo padre le aveva annunziato il distacco da entrambi.
«Non ho mai smesso di amarti per un attimo, figlia mia», le aveva detto il Muqatil, la notte prima che lei lasciasse la città di Tabarqa. «È per questo che io desidero sopra a ogni cosa che tu non debba morire. La nostra città sta per cadere, vittima non del disonore, ma del male assassino. Domani ti affiderò alle mani di una persona d’onore che si prenderà cura di te.»
La piccola si era raggomitolata tra le forti braccia del guerriero e aveva provato a protestare per la decisione del padre.
«Non voglio, padre. Non posso perdere le due persone che amo di più al mondo. Preferisco morire qui con voi.»
«Tu non immagini che cosa significhi la parola morte, bimba mia…»
«Lo so, invece. In poche ore sono stata allontanata dal letto di mia madre morente e adesso mio padre mi vuole abbandonare nelle mani di uno sconosciuto.»
«Tuo padre non vuole lasciarti, Celeste… non lo vorrebbe mai. Sono costretto a farlo perché tu sopravviva.»
Celeste lo abbracciò e provò un’altra volta a contrastare il volere del guerriero.
«Così ho deciso», disse il Muqatil con tono che non ammetteva repliche.
Un pianto sommesso scosse l’esile corpo della bambina.
Da quel momento sembravano passati secoli, mentre erano trascorsi soltanto pochi mesi. Celeste si era guardata intorno curiosa mentre percorreva per la prima volta le calli e i canali: quello che aveva sentito dire su Venezia corrispondeva a verità. Si sentiva attratta dal modo di vivere di quella gente, così diverso da tutto ciò che aveva finora conosciuto. Il fatto di essere stata travestita da giovinetto non le pesava più di tanto. Humarawa aveva deciso che fosse più prudente non mostrarla in giro vestita con abiti femminili e lei aveva obbedito: il sangue del più grande guerriero di ogni tempo correva nelle sue vene e gli insegnamenti militari di Wu erano stati il più piacevole dei passatempi. Le lezioni si erano tenute, sotto lo sguardo attento di Humarawa, già dagli ultimi giorni della navigazione verso Venezia, e avevano impegnato il tempo e i pensieri della fanciulla dalle prime ore del mattino fino al tramonto.
Angelo Campagnola distolse lo sguardo dalla casa lungo il Canal Grande. Aveva scorto Alessandro Crespi affacciato al balcone e gli era anche sembrato di vedere la figura di un bambino dietro una delle imposte del piano alto, quello riservato alla servitù.
Lo sguardo penetrante del giovinetto, che Humarawa sosteneva essere l’aiutante del suo scudiero, gli tornò alla mente.
«Un giudice ha il dovere di indagare su tutte le questioni che non gli sembrano chiare», si disse l’anziano membro del Consiglio dei Dieci.
Non appena terminata la festa, Campagnola si sarebbe dato da fare per sapere qualcosa di più su quel ragazzino che, stranamente, era capace di provocare in lui un senso di disagio.
Il giorno seguente avrebbe richiesto le informazioni necessarie.
Fu allora che accadde qualcosa di incomprensibile per coloro che incedevano sulle imbarcazioni: la folla assiepata lungo le calli e sui ponti parve di colpo impazzire e la gente si mise a correre urlando in preda al terrore.
Le prime case incominciarono a cadere come fossero state castelli di carta, poi fu come se una mano gigantesca e invisibile stesse percuotendo il suolo: il terremoto del 25 gennaio avrebbe causato gravi danni ed enormi lutti all’intera popolazione della città lagunare.
La paura si impadronì di Angelo Campagnola e l’angoscia provocata dallo spettacolo di edifici che si accartocciavano, avvolti in una polvere densa, si sovrappose all’inquietudine causata dallo sguardo degli occhi colore del mare del giovane al seguito di Humarawa.
Ottobre 2002
« A causa dei loro peccati furono affogati e poi introdotti nel Fuoco, e non trovarono nessun soccorritore… »
Conrad Deuville lasciò cadere pesantemente sul tavolo le foto che ritraevano l’immane rogo che ardeva nel golfo Persico, in prossimità dello stretto di Hormuz, e che per le sue drammatiche conseguenze era ormai considerato il più grave disastro navale avvenuto in tempo di pace.
«Si prende gioco di noi!» esclamò il direttore dell’FBI, rivolgendosi ai membri del suo gabinetto. «Ecco che cosa voleva dire nel suo primo delirante messaggio. E adesso vuole metterci di nuovo alla prova con un terribile enigma.»
Lo staff personale del direttore, composto da nove persone, e da ognuno dei responsabili dei cinque dipartimenti in cui era suddiviso l’FBI, non aveva mai abbassato la guardia. L’attentato contro le sedi irachene a New York risaliva ormai a sette mesi prima, e non ci voleva un osservatore particolarmente attento per accorgersi che le indagini erano a un punto morto: nelle mani degli inquirenti c’erano soltanto alcuni oscuri messaggi di rivendicazione, un intero piano del palazzo delle Nazioni Unite in via di rifacimento a seguito dell’esplosione e le carcasse di cinque navi affondate a Hormuz.
I mezzi di recupero, giunti da ogni parte del mondo, stavano cercando di rimuovere l’ammasso di lamiere contorte, tra mille difficoltà e nel minor tempo possibile. Ma il tempo intercorso era comunque troppo e gli investigatori annaspavano nel buio.
«Il presidente mi sommerge di telefonate, non passa giorno che il Congresso non debba rispondere a interpellanze sullo stato delle nostre indagini e sulle disponibilità energetiche del paese», disse Deuville furibondo. «Dai giorni successivi all’attentato, il prezzo del petrolio grezzo si è attestato attorno ai settanta dollari al barile: buona parte delle economie occidentali è in ginocchio. Come se non bastasse, la CIA — visto che l’ultimo attentato è avvenuto fuori dagli Stati Uniti — sta facendo pressioni affinché le alte sfere estromettano l’FBI dalle indagini. Insomma, ho paura che ci resti davvero poco tempo prima di ritrovarci a dirigere il traffico in qualche crocevia di Washington.»
Così dicendo Deuville indicò il viavai di auto in Pennsylvania Avenue. Dalle finestre della sala riunioni all’ultimo piano dell’Edgar Hoover Building, il palazzo ove si trovava la sede centrale del Federal Bureau, si poteva godere di un’ottima vista sull’intera città di Washington. Le auto incolonnate sembravano seguire il corso di un fiume in piena e le luci rosse dei fanali posteriori parevano occhi di animali travolti dall’onda.
«Dopo la nostra ultima riunione a New York, il Giusto, come ormai lo chiamano tutti i media, non si è più fatto vivo se non per rivendicare l’attentato a Hormuz. Poche ore fa ho personalmente ricevuto», dicendo questo Deuville mise alcune fotocopie sul tavolo, «un suo nuovo e farneticante messaggio. Come potete vedere dalle copie in vostro possesso, la missiva si chiude con l’inconfondibile firma di quel figlio di puttana: la stella a sei punte marcata in ceralacca.»
Nella stanza scese un silenzio carico di frustrazione: ognuno dei collaboratori di Deuville stava probabilmente pensando la stessa cosa. Erano mesi che cercavano di braccare quel terrorista e, per ora, non avevano in mano altro che un pugno di mosche.
Fu Andrew Chandler, responsabile del controspionaggio, a rompere per primo il silenzio. «Anche questa volta», disse il caposettore dell’FBI, «il Giusto si serve di versetti del Corano e forse, come è successo per Hormuz, in quelle frasi potrebbe celarsi la sede del prossimo attentato.»
Così dicendo Chandler lesse ad alta voce la frase posta al centro della pagina dattiloscritta: « Rivelammo a Mosè e a suo fratello: ‘Preparate, in Egitto, case per il vostro popolo, fate delle vostre case luoghi di culto e assolvete all’orazione. Danne la lieta novella ai credenti’. In verità col vino e il gioco d’azzardo, Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal Ricordo di Allah e dall’orazione. Ve ne asterrete? »
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