Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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I soldati incaricati del sopralluogo avevano aggirato la montagna muovendosi come felini in caccia e ricorrendo, almeno in quattro occasioni, alle funi e ai chiodi da roccia per superare le asperità di scoscesi dirupi.

Stavano affrontando un passaggio relativamente poco pericoloso: una gola stretta e in leggera pendenza dove il sole non riusciva mai a fare capolino tra le due sentinelle di roccia dolomitica che costituivano i limiti del passaggio medesimo. La scarsa difficoltà aveva indotto gli uomini del drappello a non assicurarsi con le funi.

Gli scarponi da rocciatore del tenente Petru persero aderenza sulla spessa lastra di ghiaccio che copriva il fondo della gola. In un primo momento l’ufficiale rumeno parve impegnato in improbabili passi di danza, ma in pochi istanti perse l’equilibrio e si ritrovò a terra.

Avrebbe potuto trattarsi di una banale caduta se il corpo di Petru non avesse cominciato a scivolare sulla superficie levigata del ghiaccio. Soltanto pochi metri separavano il tenente da un profondo burrone e la incontrollabile velocità di caduta aumentava a ogni centimetro.

Il maggiore Sciarra si mosse fulmineo, senza un istante di esitazione: il comandante, che marciava in testa al plotone, si lanciò a terra a sua volta, recuperando con lo slancio la distanza che lo separava da Petru. Quando gli fu vicino afferrò fermamente il tenente per gli abiti con una mano, mentre con l’altra alzava la piccozza al cielo. Quando la piccozza si abbatté sul ghiaccio, emise una nota sonante e argentina: quel suono, purtroppo, stava a significare che la punta non era riuscita a fare presa e che non sarebbe quindi riuscita a fermare la caduta dei due corpi verso il baratro.

Il resto del plotone era rimasto impietrito a guardare i due ufficiali che, avvinghiati l’uno all’altro, continuavano a scivolare inesorabilmente.

La piccozza del comandante incideva il ghiaccio emettendo un fastidioso stridore, come il gesso che geme al contatto della lavagna. Ancora pochi metri ed entrambi sarebbero precipitati.

Le gambe di Petru penzolarono sul limite del baratro profondo centinaia di metri. La mano del maggiore della Volta si mosse con la forza della disperazione. La piccozza si levò nuovamente verso il cielo e ricadde come un maglio d’acciaio. La punta ruppe lo strato gelato, incuneandosi per diversi centimetri nella coltre candida. Il braccio di Sciarra si tese per il contraccolpo e i corpi dei due uomini parvero saldarsi ancor più indissolubilmente. Quando la loro corsa verso il vuoto finalmente si arrestò, Petru si trovava ormai con buona parte del busto oltre il margine del precipizio.

Rimasero così per qualche istante, nel timore che qualsiasi movimento potesse essere loro fatale. Quindi le forti mani del maggiore si strinsero attorno al manico della piccozza e cominciarono a conquistare la via verso la salvezza.

Negli occhi di Petru non c’era paura. Osservava il suo comandante quasi incredulo: quell’uomo non aveva esitato a rischiare la propria vita per salvarlo.

Sciarra si accorse dello sguardo del suo sottoposto, non c’era bisogno di parlare per capire quanta riconoscenza si celasse negli occhi del rumeno.

Gli altri componenti del plotone non avevano perso tempo: si erano assicurati con le funi e si dirigevano verso il bordo del precipizio. Le mani di uno degli alpini strinsero quelle del comandante.

Una notte priva di luna era scesa repentina tra le vette. La temperatura, mite durante il giorno, si era abbassata improvvisamente di molti gradi.

Il comandante era nascosto dietro un grande masso. A poca distanza da lui si trovava il tenente Petru con un manipolo di uomini.

Il maggiore Sciarra era quasi certo che la galleria austriaca corresse nelle vicinanze delle trincee dove erano situati il comando di battaglione e il campo di montagna che ospitava tre compagnie di alpini. Più di cinquecento uomini stavano rischiando la vita.

Il maggiore, che teneva la pistola in pugno, la mosse per dare il segnale. Nel più assoluto silenzio Petru e sei alpini sgattaiolarono fuori dai rispettivi nascondigli. Il maggiore si teneva sulla destra del drappello che, complice l’oscurità della notte, si andava avvicinando a una zona pietrosa a mezza costa sul Piccolo Lagazuoi.

L’entrata della galleria era camuffata con un telo sul quale era stato dipinto un fondale roccioso. L’unica nota fuori luogo era data dai due militari austriaci posti di sentinella.

Uno dei soldati batté i piedi rumorosamente, poi disse una frase volgare al collega auspicando un’improbabile presenza femminile. Improvvisamente alcune ombre presero corpo nel buio. Due mani forti premettero simultaneamente le bocche delle sentinelle e le lame delle baionette si infilarono nelle loro gole.

Il maggiore e il tenente adagiarono i corpi a terra, quindi fecero cenno ai loro uomini di procedere verso l’ingresso della galleria.

Il telo era inchiodato a un pannello di legno: una sorta di porta mimetica dotata di cardini e catenaccio.

L’interno della galleria era rischiarato da lanterne a olio poste a distanza regolare.

«Dobbiamo contare i passi e vedere sino a che punto sono arrivati per cercare di calcolare quanto gli manca per raggiungere la nostra base», disse il maggiore con un filo di voce. «Voi», aggiunse indicando due alpini, «rimarrete a presidiare l’ingresso. Non vorrei fare la fine del topo in una galleria austriaca… occhi aperti!»

Con le armi in pugno i sei uomini si addentrarono nel cunicolo.

A differenza di quelle costruite dagli italiani, le gallerie austriache avevano una sezione inferiore: 80x180 centimetri, invece dei 190x190 di quelle italiane. Questa caratteristica, insieme al fatto che gli alpini erano molto più veloci dei loro nemici nelle escavazioni, aveva alimentato un senso di orgoglio e di superiorità nei soldati italiani che li faceva sentire quasi imbattibili.

«Novecentoventi», contò a mente il tenente Petru, quando una voce sconosciuta echeggiò alle sue spalle.

«Deponete le armi o apriamo il fuoco», disse in italiano qualcuno dall’inconfondibile inflessione teutonica.

Istintivamente, i sei uomini si gettarono a terra, rivolgendo le armi verso la nuova minaccia.

L’ufficiale austriaco si trovava alla fine del rettilineo fiocamente illuminato dalle lampade a olio, lungo una cinquantina di metri. La luce era insufficiente per determinare il numero degli uomini che lo accompagnavano.

L’ordine di aprire il fuoco da parte del maggiore Sciarra giunse immediato, ma gli austriaci non si fecero sorprendere: una scarica di fucileria partì alla volta degli alpini appiattiti sul fondo dell’angusta galleria.

Due di loro furono falciati dalla prima raffica, poi, in quello spazio ristretto, si scatenò l’inferno.

Pochi minuti più tardi, dopo essersi battuti come leoni, i quattro italiani rimasti ascoltarono impotenti il rumore metallico del percussore che colpiva il vuoto all’interno delle canne scariche dei loro fucili.

«Ci arrendiamo, cessate il fuoco», disse la voce del comandante.

«Gettate a terra le armi e avanzate lentamente!» rispose l’ufficiale austriaco.

Come fantasmi nella nebbia il maggiore e i suoi uomini si mossero con le mani alzate verso il nemico.

«Guardate qui, tenente Blasko», disse uno dei soldati rivolto all’ufficiale. «Sembra che ce ne sia ancora uno vivo.»

Il tenente Petru scattò come una molla, colpendo al capo un soldato austriaco con il calcio del suo fucile, ma il tentativo di fuga fu immediatamente bloccato e l’ufficiale rumeno si ritrovò sotto la minaccia delle armi dei suoi avversari.

Il comandante del drappello austriaco si fece vicino, e osservò il nemico con aria di disprezzo. «Ah, un servo rumeno», disse in ungherese rivolto a Petru.

Quello rimase immobile.

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