Le prime pagine di tutti i quotidiani del mondo erano dedicate al terribile incidente del golfo Persico e alle ripercussioni gravissime che aveva prodotto sui mercati internazionali. Primo fra tutti il prezzo del petrolio che aveva iniziato una vertiginosa salita sin dai primi minuti seguiti al naufragio. In qualche ora era arrivato alla cifra, mai nemmeno pensata in precedenza, di settantadue dollari al barile, e la corsa non pareva volersi arrestare. Alcuni analisti calcolavano che l’escalation non si sarebbe fermata prima dei settantacinque-ottanta dollari: un prezzo giudicato ai limiti dell’insostenibilità per qualsiasi economia.
L’attentato nello stretto di Hormuz stava mettendo in ginocchio il mondo occidentale e i paesi fornitori di petrolio.
L’elicottero per trasporto truppe si alzò in volo alle 5.22 del mattino. Deidra Blasey sapeva, così come ne erano convinti i diciannove marine ai suoi ordini seduti a bordo, che per gli EOD non esistevano missioni di routine. La bonifica di un campo minato o la neutralizzazione di una trappola esplosiva rappresentavano un rischio enorme sia in guerra che in pace. E un artificiere dei marine, Deidra era solita ripeterlo, doveva essere pronto a ogni evenienza: sia mentre si paracadutava dietro le linee nemiche da un Hercules che volava a bassa quota, sia se si immergeva per neutralizzare un muro di mine subacquee che precludevano l’accesso a un porto.
I soldati sottoposti al colonnello Blasey o «Mrs Fuse», come veniva chiamata dagli addetti ai lavori — letteralmente Signora Spoletta —, erano considerati tra i più affidabili al mondo quando si trattava di maneggiare esplosivi, sminare e bonificare territori. Grazie a loro erano state rese nuovamente calpestabili vaste zone sparse in ogni angolo del mondo. I luoghi in cui era chiamata a operare la squadra speciale dei marine, il cui motto era: «Nervi d’acciaio», erano accomunati dagli invisibili meccanismi di innesco delle mine. Qualche ordigno del valore di pochi dollari, ma di potenza subdola e devastante, poteva ridurre un plotone di soldati a un gruppo di storpi. «Un solo militare ferito è più pesante di cento morti», aveva l’abitudine di ripetere un vecchio stratega.
Le pale dell’elicottero fecero vorticare nuvole di sabbia, poi il velivolo si posò con la leggerezza di un insetto nella radura, a pochi passi dal fiume Tigri, che delimita il confine con l’Iraq. I marine scesero rapidi.
Prima di impartire l’ordine di muoversi il sergente Kingston verificò minuziosamente l’equipaggiamento che avevano appena scaricato. Quindi il sottufficiale si rivolse al suo comandante. Se non fosse stato per il rombo dei rotori, la zona attorno al villaggio di Faysh Kabur avrebbe risonato della stentorea voce di Kingston.
Deidra Blasey fece un cenno d’assenso con il capo coperto dall’elmetto e il plotone di sminatori si mise lentamente in marcia.
L’intera fascia di confine tra Iraq e Turchia era disseminata di mine di ogni tipo. Un’avanzata americana sembrava ormai imminente. Il compito degli sminatori era quello di aprire delle brecce nei campi minati per poi lasciar penetrare gruppi di commando, o le teste di ponte degli occidentali, in territorio iracheno.
Nella sede del Bureau in Federal Plaza, a New York, Deuville colori la frase con l’esclamazione che gli era usuale: «Merda! Il solito Jordan Cruner è l’unico a mettere in relazione l’attentato al convoglio del golfo Persico con quelli avvenuti lo scorso marzo al palazzo delle Nazioni Unite e alla sede irachena qui a New York. Non solo, l’informatissimo giornalista sostiene l’idea che un potente serial bomber si diverta a far saltare gli interessi musulmani nel mondo e a prendere per il naso il corpo di polizia federale deputato a proteggere i cittadini. Mi sembra inutile fare presente che quel corpo siamo noi. Io mi chiedo, invece, come faccia Cruner ad andare di pari passo con ogni nostra conclusione. Già dobbiamo fare i conti con i capi di governo che ci tengono il fiato sul collo, mentre siamo alle prese con una crisi senza precedenti: diverse decine di morti ammazzati e un pazzo che si diverte a piazzare esplosivi in ogni angolo del mondo. Ci mancava soltanto il solerte giornalista! Merda!»
La telecamera si attardò per qualche istante sulla scena alle spalle di Cruner. Il vento caldo del golfo Persico scompigliava i capelli castani del giornalista. Il rogo del convoglio ardeva ormai da sei giorni e sembrava impossibile arginare il fronte di fuoco.
Il cameraman alzò il pollice e Cruner incominciò a parlare: «Come potete vedere alle nostre spalle, le cinque navi coinvolte in quello che appare ormai come un sanguinoso attentato dalle conseguenze catastrofiche continuano a bruciare nel punto più angusto dello stretto di Hormuz. Una prima ispezione aerea effettuata da una delegazione congiunta arabo-americana ha stimato che saranno necessari almeno quattro mesi, una volta domato l’incendio, per sgombrare il canale dai relitti. Se si calcola che at traverso lo stretto di Hormuz transita la maggioranza dell’intero traffico mondiale di greggio, possiamo immaginare quali saranno le conseguenze di questo disastro. Per tornare al misterioso attentatore, alcune attendibili fonti rivelano potrebbe trattarsi della stessa persona che ha collocato alcuni mesi or sono i due ordigni nella città di New York. Come i nostri telespettatori ricorderanno, l’ufficio iracheno presso le Nazioni Unite e la delegazione a New York dello Stato arabo furono colpiti simultaneamente nel mese di marzo, e una dozzina di addetti diplomatici perse la vita in quegli attentati. Alcune testate giornalistiche, tra cui la nostra K.C. News, oltre all’FBI, ricevettero una rivendicazione dell’attentato da parte di un sedicente ‘Giusto in nome di Dio’. Sappiamo che un nuovo biglietto è giunto alla direzione generale del Federal Bureau of Investigation nelle scorse ore. La firma in calce alla rivendicazione è costituita da un antico sigillo raffigurante una stella a sei punte: l’esagramma di Re Salomone. Jordan Cruner, K.C. News, Ra’s al Khaymah, Emirati Arabi Uniti».
Oswald Breil si massaggiò il braccio destro: l’arto gli doleva ancora per le ferite riportate nel corso dell’attacco al palazzo delle Nazioni Unite. Le indagini che avevano stabilito l’identità dell’autore del primo dei due attentati — un magnate giapponese legato indissolubilmente alla Yakuza, la mafia nipponica — avevano dimostrato che tra l’attacco missilistico da parte dell’elicottero e le due esplosioni, una al dodicesimo piano del Palazzo di Vetro e l’altra nella sede irachena presso le Nazioni Unite, non vi era alcun nesso. Si trattava di una serie incredibile di coincidenze assolutamente imprevedibili.
Una coincidenza… l’ennesima coincidenza. Ma Breil sapeva bene che, nel suo lavoro, non c’era spazio per le coincidenze.
L’argomento sul quale sia i media che le istituzioni avevano evitato di soffermarsi era il motivo che poteva spingere un esponente di spicco della malavita giapponese a pilotare un elicottero e a lanciare missili nel centro di Manhattan: quel motivo si chiamava Oswald Breil.
L’ex premier israeliano stava seguendo le immagini che riprendevano l’immenso rogo di Hormuz; poi, con la voce di Jordan Cruner come sottofondo, l’emittente mandò in onda l’immagine del sigillo. Oswald si fece ancora più attento.
Breil conosceva bene quel simbolo: lo aveva visto raffigurato su un antico anello che lui stesso aveva consegnato a una vecchia amica, proprio un istante prima che l’elicottero aprisse il fuoco. Subito dopo l’Anello dei Re era andato smarrito. Si trattava di un’altra coincidenza?
Dal momento dell’attentato Breil aveva abbandonato ogni incarico pubblico in Israele, e si era rifugiato presso la coppia che lo aveva adottato quando i suoi genitori erano morti in un incidente d’auto. Il piccolo uomo affermava di aver bisogno di un periodo di riflessione, nonostante, o forse proprio a causa di queste pressioni che lo volevano di nuovo alla guida del governo israeliano.
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