Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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«Merda rumena e traditrice», disse ancora il tenente ungherese, sputando sulla faccia del giovane ufficiale.

Petru accennò una reazione, tentando di divincolarsi dalla presa dei soldati che lo bloccavano.

Nel tentativo di liberarsi alcune cuciture della divisa cedettero, e l’ufficiale nemico si accorse che Petru teneva dei fogli nascosti tra la fodera e la stoffa della giacca.

«Bene, fammi vedere che cosa nascondi qui.» Le mani dell’ungherese si insinuarono nella stoffa, impossessandosi dei fogli.

«Non c’è abbastanza luce per vedere quello che hai nascosto con così grande cura. Lo farò più tardi all’accampamento…»

«Blasko… Blasko…» disse Petru, come se avesse l’intenzione di imprimersi per sempre nella memoria il nome dell’ufficiale.

«Tenente Béla Blasko, del 43° fanteria imperiale. Tanto non avrai modo né tempo per raccontarlo.»

Così dicendo Blasko fece per colpire con un calcio il prigioniero. Petru si mosse con l’agilità di una fiera: chiuse come in una morsa la gamba dell’ungherese tra il braccio e il corpo. A questo punto il maggiore Sciarra si scagliò contro i due militari che avevano preso il suo subalterno.

Sempre stringendo il tenente Blasko, Petru guadagnò una posizione più favorevole. Quando il rumeno fu certo che nessuno dei nemici si frapponeva tra lui e l’uscita della galleria, alzò una gamba dell’ungherese con violenza. Blasko si librò per un istante a mezz’aria, cadendo poi pesantemente al suolo. Il colpo che ricevette alla nuca non fu però sufficiente a fargli perdere del tutto i sensi: «Sparate, idioti!» gridò l’ufficiale ai suoi, «sparate, non fate fuggire il rumeno!»

Ma Minhea Petru era già scomparso dietro un’ansa della galleria.

«Voi, maggiore, scommetto avrete molte cose da raccontare al mio comando», disse Béla Blasko, battendo sul palmo aperto della mano le carte appena sequestrate a Petru.

Per tutta risposta, Sciarra iniziò quella che sarebbe diventata la litania che l’ufficiale italiano avrebbe recitato al nemico per tutto il tempo della sua prigionia.

«Maggiore alpino Alberto Sciarra della Volta, matricola numero 23B875574. Queste sono le uniche informazioni che sono autorizzato a darvi.»

6

Mar Mediterraneo, 1348

«Pensa, Wu…» disse Humarawa rivolto al suo scudiero, «… pensa al modo in cui la nostra gente festeggia l’avvento di un nuovo anno… pensa alle luci, ai fuochi magici, all’allegria… Come tutto è diverso adesso, qui. Siamo soli in questo mare lontano, persino il calendario è differente dal nostro.»

«Hai nostalgia della tua terra, mio signore?»

«No, Wu. Non è nostalgia. Penso solo alle sorprese che è capace di riservare la vita.» Il samurai tacque, quasi volesse riordinare le idee, poi riprese. «Venezia mi ha dato una possibilità di riscatto dopo la fuga dal mio paese e mi ha accolto come un figlio. E come tale penso di essermi comportato: mi sono battuto in nome del leone di San Marco. Ho solcato questi mari annientando la minaccia dei pirati. Ho comandato truppe d’assedio ed equipaggi di guerrieri pensando che questo fosse lo scopo della mia vita: combattere e vincere il nemico. Sarà forse il passare degli anni, ma mi sento stanco, Wu.»

La bocca deforme del gigante cinese si aprì in un sorriso: la cicatrice che lo deturpava era dovuta a una ferita che aveva subito nel corso dell’unico combattimento in cui Wu si era visto costretto a soccombere. Era stato Alessandro Crespi, un mercante veneziano, a ridurlo così. Lo stesso mercante che, anni prima, aveva convinto il suo signore a fuggire dal Giappone per cominciare una nuova vita nella lontana Venezia.

«Non giudicare le mie parole come irriverenti, mio signore», disse Wu, con un tono ossequioso che mal si accompagnava al suo fisico da orco, «non è certo l’avvicinarsi delle quaranta primavere la causa della tua stanchezza. Sono le nuove responsabilità che ora ti pesano addosso…»

«Che cosa vuoi dire, Wu?» Gli occhi neri e sottili del samurai si fecero penetranti, pur tradendo una delle rare espressioni divertite di Humarawa.

«Voglio dire, insomma, mio signore… il debito d’onore nei confronti del tuo grande nemico…» Wu sembrava un pentolone d’olio pronto a infiammarsi. «Non sono abile con le parole», sbottò Wu a quel punto, «ma, insomma, quella bambina ha cambiato il tuo sguardo, nobile Hito Humarawa.»

Gli occhi dei due orientali corsero lungo il ponte della galea, sino a posarsi su una figura che osservava il mare a poppa. Da quando erano partiti Celeste trascorreva là molte ore in preda alla malinconia.

Hito si incamminò in direzione del giardinetto della nave da guerra.

«Devo parlarti, Celeste. Devo dirti delle cose importanti», disse il samurai con dolcezza.

La figlia del Muqatil aveva abbandonato i modi aspri dei primi giorni di navigazione. Piano piano aveva capito che quell’uomo era un valoroso guerriero e non l’abietto untore colpevole della diffusione della peste a Tabarqa. Certo, non poteva amare una persona che, in qualche modo, era responsabile della morte dei suoi genitori, ma l’odio di Celeste andava trasformandosi in un sentimento sempre più simile all’amicizia e alla fiducia. La bimba alzò gli occhi del colore del mare e, senza esitazione, sostenne lo sguardo dell’uomo.

«Tra qualche giorno arriveremo a Venezia. Il padre di tua madre Diletta, Angelo Campagnola, è una delle persone più influenti della città. Fa parte del Consiglio dei Dieci, il governo della Repubblica, capisci, ed è lui che influenza ogni decisione del doge. Ho giurato al Muqatil che mai ti avrei consegnato a tuo nonno, ma per rispettare questo patto avrò bisogno del tuo aiuto.»

Il Consiglio dei Dieci era stato istituito nel 1310 per punire i responsabili di una sanguinaria congiura capitanata da Bajamonte Tiepolo. Da allora, con alterne vicende, era stato il sinistro compagno di ogni veneziano. Spesso, pur di tenere fede al suo compito istituzionale di garante della sicurezza della Repubblica, il Consiglio si era macchiato di ogni tipo di orrenda nefandezza: i decem sapientes agivano con la stessa intransigenza dei membri del Tribunale ecclesiastico dell’Inquisizione. La città era disseminata di «buche» ove comuni cittadini deponevano denunce anonime. I numerosi scritti delatori giungevano quindi all’esame del Consiglio, che aveva facoltà di decidere se archiviare o dare corso alla denuncia. Un «lettore», scelto tra i Dieci Sapienti, assumeva l’incarico di enunciare gli esposti all’assemblea. Il Consiglio a maggioranza decideva sulla fondatezza di ciò che aveva appena appreso: in caso di mancato interesse la denuncia veniva arsa su due candele che rimanevano sempre accese durante le sedute del tribunale.

Angelo Campagnola faceva parte del Consiglio sin dal giorno in cui il doge aveva ripristinato l’istituzione, qualche anno addietro.

Da quando la sua unica figlia Diletta, anni prima, era fuggita con il più temuto tra i pirati saraceni, il nobile veneziano viveva nel timore di vedere infangata la propria reputazione e di perdere il proprio potere. Ma tale timore si era dimostrato infondato: pochi conoscevano la vera storia di sua figlia e coloro che erano al corrente della vicenda avevano testimoniato solidarietà verso il potente, oltraggiato da una figlia indegna e per questo giustamente rinnegata.

Campagnola camminava nervosamente sulla banchina del porto: una staffetta lo aveva appena avvisato dell’arrivo della nave.

Le ultime notizie che aveva ricevuto da Tabarqa dicevano che la città era in ginocchio, devastata dall’assedio e dall’epidemia di peste.

Angelo Campagnola non riusciva a trattenere l’impazienza, mentre la galea procedeva alle manovre di ormeggio. Il suo più grande desiderio era che Tabarqa fosse caduta. Ciò avrebbe sancito la fine del pirata che aveva razziato per anni i mari della Serenissima. Inoltre, con la morte del Muqatil, il nobile veneziano avrebbe potuto cancellare la macchia che oscurava il suo onore: la vergogna di aver dato alla luce una figlia degenere.

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