Marco Buticchi - L'anello dei re

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Un attentato a New York semina il panico tra la popolazione, ma si tratta solo di un primo caso di una serie di agguati verso la popolazione musulmana. Il rivendicatore si firma “Giusto in nome di Dio” e imprime sulle sue lettere il sigillo a 6 punte del re Salomone. Si alternano quindi le vicende dei possessori dell’anello. Dalla Venezia del 1300 si passa al fronte carsico della Grande Guerra e poi fino alla dittatura di Ceausescu in Romania.Questi flash-back si alternano alla ricerca del “Giusto” da parte di Oswald Breil e Cassandra Ziegler. Dopo numerosi colpi di scena , intrighi di potere, di cui sono protagonisti anche personaggi realmente esistiti, i protagonisti riescono a scoprire la vera identità del “Giusto” e evitare l’ennesimo massacro.

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A dire la verità, una persona che raramente aveva conosciuto la paura come Oswald aveva il timore che la calma di cui godeva vicino a Ezer e Lilith Habar fosse contagiosa. I due coniugi avevano lasciato Tel Aviv da diversi anni per trasferirsi a Denver, in Colorado, dove Ezer era stato il direttore del Rocky Flats Plant, un importante centro di produzione di energia nucleare. Oswald ricordava bene la meravigliosa atmosfera che regnava in casa degli Habar sin da quando era ragazzino: accanto a Lilith e a suo marito il tempo sembrava rallentare, fermarsi a riflettere, concedersi pause impensabili nella frenetica vita quotidiana.

«Fermo!» Il gesto della mano del sergente Kingston fu eloquente quanto il tono della voce. Il giovane marine rimase immobile, con la gamba destra sospesa per aria: una bella statuina in divisa ritratta nell’atto di compiere un passo.

Kingston si chinò con cautela davanti al soldato. Le sue dita accarezzarono con circospezione un sasso poco più piccolo del palmo di una mano. Il pollice e l’indice si serrarono sul bordo del sasso, quindi Kingston lo lanciò in una zona sgombra, quasi stesse giocando a far rimbalzare dei ciottoli levigati sulla superficie del mare.

Non appena toccò terra, quella che pareva una pietra esplose con un boato assordante.

La voce di Kingston si alzò non appena l’eco dell’esplosione si attenuò: «Mina di tipo SB33 di costruzione italiana. Misura circa nove centimetri di diametro per tre e mezzo di altezza. Pesa centocinquanta grammi ed è in grado di provocare amputazioni traumatiche. Ricordate bene: chiunque sia capace di disseminare di mine di questo tipo non ha nessun interesse che le sue vittime vengano seppellite sotto mezzo metro di terra. Al nemico interessiamo storpi e zoppi, bisognosi di cure e di arti artificiali. Ricordatelo bene, ragazzi, e prestate la massima attenzione a tutto quello su cui appoggiate ogni parte del vostro corpo. Nell’incertezza di che cosa ci troveremo sotto ai piedi dobbiamo muoverci come farfalle e non sottovalutare alcun dettaglio».

5

Fronte dolomitico, giugno 1916

Il maggiore Sciarra osservò l’ufficiale rumeno. Il tenente Minhea Petru stava sull’attenti di fronte al suo superiore. Poco di lato, la stufa a legna emanava un piacevole calore.

Lo slargo della galleria nella quale era stato posto il comando consisteva in una stanza di pochi metri quadrati. Sotto lo strato di carta catramata si intuiva la grezza roccia dolomitica.

Minhea Petru aveva un viso simpatico e occhi vivaci di colore marrone che ora soppesavano ogni particolare dell’uomo di fronte a lui, il quale sarebbe diventato molto più che il suo comandante.

Il fisico adetico e possente di Petru si intuiva anche sotto il pastrano che copriva la divisa grigioverde da poco adottata dall’esercito italiano, in sostituzione di quella blu usata sino ad allora: era stato un ex alpino in congedo, tale Luigi Brioschi, a dimostrare allo stato maggiore dell’esercito che quel colore confondeva la mira dei cecchini. Nel corso di alcune prove di tiro, i bersagli in grigioverde erano stati colpiti meno volte di tutti gli altri.

Una fascetta col tricolore rumeno, posta sopra la tasca pettorale sinistra, oltre a rappresentare l’unica nota di risalto nella piatta monocromaticità della divisa, stava a indicare le origini dell’ufficiale volontario.

«La vostra nazione sembra sul punto di scendere in guerra», disse il comandante di compagnia. «Qualora questo dovesse avvenire, che cosa accadrà al vostro distaccamento presso la mia compagnia?»

«Ho espressamente richiesto di non venire trasferito in caso di coinvolgimento della mia patria nel conflitto, signor maggiore. Sono venuto in Italia quando avevo pochi mesi e mi sento di appartenere alla vostra gente. Non prendete questa mia affermazione come disfattista, signore, ma non credo che la Romania potrebbe resistere più di pochi mesi a un eventuale attacco austroungarico. E questo per una serie di motivi che vanno dalla sua posizione geografica nel bel mezzo delle nazioni nemiche alla scarsa efficienza del suo esercito e, non ultimo, al carattere non aggressivo dei suoi abitanti.»

La pacata linearità di questo discorso fece sì che la prima impressione del maggiore riguardo al suo subalterno fosse positiva.

Forse avrebbe trovato nel giovane tenente rumeno un valido appoggio.

«Conoscete l’uso delle mine, tenente?» chiese il maggiore.

«Sono abbastanza esperto di esplosivi, signore. A essere sincero non ho eccessive conoscenze di gallerie e di scavi, ma posso sempre imparare.»

«Bene, tenente Petru, ritengo sia il caso che uno dei nostri sottufficiali vi affianchi per rendervi edotto dei segreti della guerra di mina. Vi sarà molto utile.»

Erano trascorsi diversi mesi da quel primo incontro. Il tenente Minhea Petru si dimostrava di giorno in giorno un ufficiale valido, attento, e un ottimo combattente. Anche quando la Romania era scesa in guerra a fianco degli alleati, nell’agosto del 1916, l’ufficiale era rimasto fedele alla promessa fatta di non richiedere il trasferimento. E le parole che il sottoposto aveva rivolto allora al maggiore erano state profetiche: esattamente sei mesi dopo la dichiarazione di guerra all’impero austroungarico la Romania era stata invasa dall’esercito nemico.

Le gallerie di mina erano simili a un labirinto che si dipanava nelle viscere delle montagne dolomitiche. Dovevano servire a raggiungere, scavando nel cuore delle rocce, le zone sottostanti alle postazioni nemiche. Qui giunti, sia pure con tutte le difficoltà di individuare esattamente la posizione, gli scavatori lasciavano il posto agli artificieri. Questi ultimi riempivano la camera di scoppio con centinaia, a volte migliaia di chilogrammi di esplosivo, facendo saltare in aria tutto ciò che si trovava sopra alla galleria, armi e fanti compresi.

Le operazioni dovevano essere svolte con grande prudenza: se il nemico avesse scoperto degli scavatori all’opera, avrebbe immediatamente posto in atto le strategie del caso. Strategie che andavano dall’assalto alla galleria alla simultanea costruzione di un cunicolo chiamato «di contromina», che aveva lo scopo di intercettare e minare quella costruita dagli avversari.

La guerra di mina assomigliava così a una delicata partita a scacchi. In palio non c’era la caduta di un re intarsiato in legno, ma la vita di migliaia di soldati impegnati — ormai da molti mesi — in una guerra difficile e logorante.

Alberto Sciarra della Volta si accostò al cannocchiale a periscopio che consentiva di osservare ciò che succedeva al di là dei sacchi di sabbia che proteggevano la trincea.

Un comandante doveva saper cogliere ogni rumore sospetto e prendere nota di ogni elemento dissonante con la natura del luogo: un cumulo di detriti che somigliava a una frana lungo un crinale poteva invece essere il punto in cui veniva scaricata la risulta per la costruzione di una galleria.

«Guardate laggiù, tenente Petru», disse il maggiore, lasciando il cannocchiale al subalterno. «Osservate quella piccola frana a mezza costa, sembra originata dal nulla: non vi sono, sopra di essa, rocce instabili o appena smottate.»

«Avete ragione, comandante», rispose l’ufficiale rumeno. «Sono giorni che guardo in quella direzione e mi sembra che i detriti siano aumentati in maniera inspiegabile.»

«Credo dovremo dare un’occhiata di persona.»

L’enorme quantità di terra e sassi derivanti dallo scavo era l’unico indizio capace di rivelare la frenetica attività che si stava svolgendo all’interno della montagna: quella di centinaia di uomini armati di picconi e martelli che combattevano senza sosta contro la dura roccia dolomitica. Dietro di loro si muoveva una fila pressoché ininterrotta di «anime del purgatorio»: così venivano chiamati i militari che, dotati di secchi, avevano il compito di raccogliere i detriti e trasportarli fuori dalla galleria in una delle tante discariche improvvisate lungo le coste delle montagne. Era stato proprio uno di questi ammassi di pietre che aveva alimentato i sospetti del comandante italiano: subito un plotone era stato sollecitato a una sortita esplorativa.

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