Andrea Camilleri - Il cane di terracotta

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Andrea Camilleri

Il cane di terracotta

Uno

A stimare da come l’alba stava appresentandosi, la iurnata s’annunziava certamente smèusa, fatta cioè ora di botte di sole incaniato, ora di gelidi stizzichii di pioggia, il tutto condito da alzate improvvise di vento. Una di quelle iurnate in cui chi è soggetto al brusco cangiamento di tempo, e nel sangue e nel ciriveddro lo patisce, capace che si mette a svariare continuamente di opinione e di direzione, come fanno quei pezzi di lattone, tagliati a forma di bannèra o di gallo, che sui tetti ruotano in ogni senso ad ogni minima passata di vento.

Il commissario Salvo Montalbano apparteneva da sempre a quest’infelice categoria umana e la cosa gli era stata trasmessa per parte di matre, che era cagionevole assai e spesso si serrava nella càmmara di letto, allo scuro, per il malo di testa e allora non bisognava fare rumorata casa casa, camminare a pedi lèggio. Suo patre invece, timpesta o bonazza, sempre la stessa salute manteneva, sempre del medesimo intìfico pinsèro se ne restava, pioggia o sole che fosse.

Magari questa volta il commissario non smentì la natura della sua nascita: aveva appena fermato l’auto al decimo chilometro della provinciale Vigàta-Fela, come gli era stato detto di fare, che subito gli venne gana di rimettere in moto e tornarsene in paese, mandando a patrasso l’operazione. Arriniscì a controllarsi, accostò meglio la macchina al ciglio della strata, raprì il cassetto del cruscotto per pigliare la pistola che abitualmente non portava addosso. Però la mano gli restò a mezz’aria: immobile, affatato, continuò a taliare l’arma.

«Madonna santa! È vero!» pensò.

La sera avanti, qualche ora prima che arrivasse la telefonata di Gegè Gullotta ad armare tutto il mutupèrio - Gegè era un piccolo spacciatore di roba leggera e organizzatore di un bordello all’aperto conosciuto come la mannara - il commissario stava leggendo un romanzo giallo di uno scrittore barcellonese che l’intricava assai e che portava lo stesso cognome suo, ma spagnolizzato Montalbàn. Una frase l’aveva particolarmente colpito: «la pistola dormiva con il suo aspetto di lucertola fredda». Ritirò la mano tanticchia schifato, richiuse il cassetto lasciando la lucertola al suo sonno. Tanto, se tutta la storia che stava per cominciare si fosse rivelata un trainello, un’imboscata, aveva voglia a portarsi appresso la pistola, quelli l’avrebbero spirtusato come e quando volevano a colpi di kalashnikov, e tanti saluti e sono. C’era solo da sperare che Gegè, in ricordo degli anni trascorsi l’uno allato all’altro sullo stesso banco delle elementari, amicizia continuata poi magari quando s’erano fatti grandi, non si fosse risolto, per interesse suo, a venderlo come carne da porco, contandogli una minchiata qualisisiasi per farlo cadere nella rete. No, qualisisiasi proprio no: la facenna, se vera, sarebbe arrisultata cosa grossa e rumorosa.

Tirò un profondo sospiro e pigliò ad acchianare lento, un pedi leva e l’altro metti, lungo uno stretto viottolo sassoso tra ampie distese di viti. Era uva da tavola, di chicco rotondo e sodo, detta, va a sapere pirchì, «uva Italia», l’unica che pigliasse su quei terreni, perché quanto ad altra racìna per fare vino, sempre su quei terreni era meglio sparagnarsi la spesata e il travaglio.

La casuzza a un piano, una càmmara sotto e una sopra, stava proprio in pizzo alla collinetta, seminascosta da quattro enormi ulivi saraceni che la circondavano quasi per intero. Era come Gegè gliel’aveva descritta. Porta e finestre inserrate e scolorite, nello spiazzo davanti c’era una gigantesca troffa di càpperi e poi c’erano troffe più piccole di cocomerelli serbatici, di quelli che appena si toccano con la punta d’un bastone schizzano in aria spandendo simenza, una seggia di paglia sfondata e messa a gambe all’aria, un vecchio cato di zinco per pigliare l’acqua reso inservibile dalla ruggine che se l’era mangiato a pezzi. L’erba aveva coperto il resto. Tutto concorreva a dare l’impressione che da anni il loco fosse disabitato, ma era apparenza ingannevole e Montalbano per spirenzia s’era fatto troppo sperto per lasciarsi persuadere, anzi era convinto che quarcheduno se ne stesse a taliarlo dall’interno della casuzza, giudicando le sue intenzioni dai gesti che avrebbe fatto. Si fermò a tre passi dalla porta, si levò la giacchetta, l’appese a un ramo d’ulivo, in modo che potessero vedere che non portava arma, chiamò senza isare troppo la voce, come un amico che va a trovare un altro amico.

«Ohè! Di casa!».

Nessuna risposta, nessuna rumorata. Dalla sacchetta dei pantaloni il commissario tirò fòra un accendino e un pacchetto di sigarette, se ne mise una in bocca e l’addrumò, sistemandosi controvento con un mezzo giro su se stesso. Così chi c’era dintra la casa ora avrebbe potuto comodamente taliarlo di spalle, come prima l’aveva taliato di petto. Tirò due boccate, poi andò deciso alla porta e tuppiò forte col pugno, tanto da farsi male alle nocche per le scrostature indurite della vernice sul legno.

«C’è quarcuno?» spiò di nuovo.

Tutto poteva aspettarsi, meno la voce ironica e calma che lo pigliò a tradimento alle spalle.

«C’è, c’è. Sono qua».

«Pronto? Pronto? Montalbano? Salvuzzo! Io sono, Gegè sono».

«L’avevo capito, calmati. Come stai, occhiuzzi di miele e zàgara?».

«Bene sto».

«Hai travagliato di bocca in queste iurnate? Ti perfezioni sempre di più nel pompino?».

«Salvù, non metterti a garrusiare al solito tuo. Io semmai, e tu lo sai, non travaglio ma faccio travagliare di bocca».

«Ma tu non sei il maestro? Non sei tu che insegni alle tue variopinte buttane come devono mettere le labbra, quanto dev’essere forte la sucatina?».

«Salvù, magari se fosse come dici tu, sarebbero loro a darmi lezione. A dieci anni arrivano imparate, a quindici sono tutte maestre d’opera fina. C’è un’albanese di quattordici anni che...».

«Ti stai mettendo a fare la reclami alla merce?».

«Senti, tempo ne ho picca per stare a babbiare. Ti devo consegnare una cosa, un pacco».

«A quest’ora? Non puoi farmelo avere domani a matino?».

«Domani non ci sono in paese».

«Lo sai che c’è nel pacco?».

«Certo che lo saccio. Ci sono mostazzoli di vino cotto, quelli che ti piàcino. Me soro Mariannina li ha fatti apposta per te».

«Come sta Mariannina con gli occhi?».

«Meglio assai. A Barcellona di Spagna hanno fatto miracoli».

«A Barcellona di Spagna scrivono magari libri belli».

«Che dicisti?».

«Nenti. Cose mie, non ci fare caso. Dov’è che ci vediamo?».

«Al posto solito, tra un’ora».

Il posto solito era la spiaggetta di Puntasecca, una corta lingua di sabbia sotto una collina di marna bianca, quasi inaccessibile via terra, o meglio accessibile solo per Montalbano e per Gegè che fin dalle elementari avevano scoperto un sentiero già difficoltoso a farselo a piedi, addirittura temerario a percorrerlo in macchina. Puntasecca distava pochi chilometri dalla villetta sul mare, appena fòra Vigàta, dove abitava Montalbano e questi perciò se la pigliò comoda. Ma proprio quando aveva aperto la porta per andare all’appuntamento, squillò il telefono.

«Ciao, amore. Eccomi puntuale. Come ti è andata oggi?».

«Normale amministrazione. E tu?».

«Idem. Senti, Salvo, ho pensato a lungo a quello che...».

«Livia, scusami se t’interrompo. Ho poco tempo, anzi non ne ho per niente. Mi hai pigliato che già ero sulla porta, stavo uscendo».

«Allora esci e buonanotte».

Livia riattaccò e Montalbano rimase col microfono in mano. Poi gli tornò a mente che la sera avanti aveva detto a Livia di chiamarlo a mezzanotte precisa perché avrebbero avuto certamente tempo per parlare a lungo. Restò indeciso se richiamare subito la sua donna a Boccadasse o farlo al rientro, dopo l’incontro con Gegè. Con una punta di rimorso rimise a posto il ricevitore, niscì.

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