Andrea Camilleri - Il cane di terracotta

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Il cane di terracotta: краткое содержание, описание и аннотация

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Quando arrivò, con qualche minuto di ritardo, Gegè era ad aspettarlo, passiava nirbùso avanti e narrè lungo la sua auto. S’abbracciarono e si baciarono, era da tempo che non si praticavano.

«Andiamo ad assittarci nella mia macchina, stanotti fa friscoliddro» disse il commissario.

«Mi hanno messo in mezzo» attaccò Gegè appena assittato.

«Chi?».

«Persone alle quali non posso negarmi. Tu sai che io, come ogni commerciante, pago il pizzo per travagliare in santa pace e per non fare succedere burdello, fatto ad arte, nel burdello che ho. Ogni mese che u Signuri Iddio manda in terra, c’è uno che passa e incassa».

«Per conto di chi? Me lo puoi dire?».

«Passa per conto di Tano u grecu».

Montalbano strammò, magari se non lo diede a vedere all’amico. Gaetano Bennici, inteso «u grecu», non aveva visto la Grecia manco col cannocchiale e delle cose dell’Eliade ne poteva sapere quanto un tubo di ghisa, ma era detto così per un certo vizio che la voce popolare diceva sommamente gradito nei paraggi dell’acropoli. Aveva sicuramente tre omicidi sulle spalle, nel giro occupava un posto un gradino più sotto ai capi capi, ma non si sapeva che operasse nella zona di Vigàta e dintorni, qui erano le famiglie Cuffaro e Sinagra a contendersi il territorio. Tano apparteneva a un’altra parrocchia.

«Ma Tano u grecu che ci accucchia da queste parti?».

«Che minchia di domande mi fai? Che minchia di sbirro sei? Non lo sai che è stato stabilito che per Tano u grecu non ci sono parti, non ci sono zone quando si tratta di fìmmine? Gli è stato dato il controllo e la pribenna su tutto il buttaname dell’isola».

«Non lo sapevo. Vai avanti».

«Verso le otto di stasira stessa passò il solito omo per l’incasso, era la iurnata stabilita per pagare il pizzo. Si pigliò li sordi che io gli desi, ma, invece di ripartirsene, questa vota raprì lo sportello della machina e mi disse d’acchianare».

«E tu?».

«Mi scantai, mi vennero i sudori freddi. Ma che potevo fare? Acchianai, e lui partì. Per fartela breve, piglia la strata per Fela, si ferma dopo manco mezz’ora di camino...».

«Ci domandasti dove stavate andando?».

«Certo».

«E che ti disse?».

«Muto, come se non avessi parlato. Dopo una mezzorata mi fa scìnniri in un posto che non c’era anima criata, mi fa signo di pigliare una trazzera. Non passava manco un cane. A un certo momento, e nun saccio da dove minchia sbucò, mi si para davanti Tano u grecu. Mi pigliò un colpo, le gambe fatte di ricotta. Capiscimi, non è vigliaccaggine, ma quello tiene cinco micidii».

«Come cinque?».

«Perché, a voi quanti ve ne arrisultano?».

«Tre».

«Nossignore, sono cinco, garantito al limone».

«Va bene, continua».

«Io mi tirai subito il paro e il dispàro. Dato che avevo sempre pagato regolarmente, mi feci persuaso che Tano volesse isàre il prezzo. Degli affari non mi posso lamentare, e loro lo sanno. Mi sbagliavo, non era cosa di soldi».

«Che voleva?».

«Senza manco salutàrimi, mi spiò se ti conoscevo».

Montalbano credette di non avere inteso bene.

«Se conoscevi a chi?».

«A tia, Salvù, a tia».

«E tu che gli dicesti?».

«Io, cacandomi nei cazùna, gli arrisposi che ti conoscevo, certo, ma così, di vista, bongiorno e bonasira. Mi taliò, mi devi accrìdiri, con un paro d’occhi che parevano quelli delle statue, fissi e morti, poi tirò la testa narrè, si fece una risateddra leggia leggia, e mi addomandò se volevo sapere quanti peli avevo nel culo, a sbagliare di un massimo di due. Voleva significare che di mia accanosceva vita, miracoli e morte, speriamo il chiù tardo possibile. Perciò calai gli occhi a terra e non raprii bocca. Allora mi disse di dirti che ti voli vìdiri».

«Quando e dove?».

«Stanotte stissa, all’arba. Dove, te lo spiego subito».

«Lo sai che vuole da me?».

«Questo non lo saccio e non lo voglio sapìri. Ha detto di farti convinto che ti puoi fidare di lui come con un fratello».

Come con un fratello: queste parole, anziché rassicurare Montalbano, gli procurarono uno spiacevole brivido nella schiena, era risaputo che al primo posto dei tre - o cinque - omicidi di Tano c’era quello di suo fratello maggiore Nicolino, prima strangolato e poi, per una misteriosa regola semiologica, accuratamente scuoiato. Cadde in pensieri neri, che divennero ancora se possibile più neri alle parole che Gegè gli sussurrò, mettendogli una mano sulla spalla.

«Statti accorto, Salvù, quello è una vestia mala».

Se ne stava tornando a casa guidando piano quando i fari della macchina di Gegè che lo seguiva lampeggiarono ripetutamente. Si fece di lato, Gegè s’accostò e piegandosi tutto verso il finestrino dalla parte di Montalbano, gli porse un pacchetto.

«Mi scordavo i mostazzoli».

«Grazie. Credevo fosse stata una tua scusa, una copertura».

«E io che sono? Uno che dice una cosa per un’altra?».

Accelerò, offeso.

Il commissario passò una nottata da contarla al medico. Il primo pinsèro che gli venne fu quello di telefonare al questore, arrisbigliarlo e informarlo, cautelandosi su tutti gli sviluppi che la facenna poteva avere. Però Tano u grecu in proposito era stato esplicito, come gli aveva riferito Gegè: Montalbano non doveva far sapere niente a nessuno e all’appuntamento doveva andarci da solo. Qui però non era quistione di giocare a guardie e ladri, il dovere suo era di fare il dovere suo, vale a dire avvertire i superiori, con loro predisporre fin nei minimi dettagli le operazioni d’appostamento e di cattura, magari con l’aiuto di sostanziosi rinforzi. Tano era latitante da quasi dieci anni e lui, tranquillo e sireno, andava a trovarlo come se quello fosse un amico tornato dalla Merica? Manco a parlarne, non era cosa, il questore doveva assolutamente essere messo al corrente. Compose il numero dell’abitazione del suo superiore a Montelusa, il capoluogo.

«Sei tu, amore?» fece la voce di Livia da Boccadasse, Genova.

Montalbano restò per un momento senza fiato, si vede che il suo istinto lo stava portando a non parlare col questore, facendogli sbagliare numero.

«Scusami per poco fa, ho ricevuto una telefonata imprevista che mi ha costretto a uscire».

«Lascia perdere, Salvo, lo so il mestiere che fai. Scusami tu piuttosto per lo scatto, ero rimasta delusa».

Montalbano taliò il ralogio, aveva almeno tre ore prima di andare a incontrarsi con Tano.

«Se vuoi, possiamo parlare ora».

«Ora? Scusami, Salvo, non è per ripicca ma preferirei di no. Ho preso il sonnifero, tengo a fatica gli occhi aperti».

«D’accordo, d’accordo. A domani. Ti amo, Livia».

La voce di Livia cangiò di colpo, si fece sveglia e agitata.

«Eh? Che c’è? Che c’è, Salvo?».

«Niente c’è, che ci deve essere?».

«Eh no, caro, tu non me la conti giusta. Devi fare qualcosa di pericoloso? Non mi fare stare in pensiero, Salvo».

«Ma come fanno a venirti certe idee in testa?».

«Dimmi la verità, Salvo».

«Non sto facendo nulla di pericoloso».

«Non ci credo».

«Ma perché, Cristo santo?».

«Perché m’hai detto ti amo, tu da quando ci conosciamo me l’hai detto solo tre volte, le ho contate, e ogni volta è stato per qualcosa d’insolito».

L’unica era troncare, con Livia si poteva arrivare a matino.

«Ciao, amore, dormi bene. Non essere stupida. Ciao, devo uscire di nuovo».

E ora come fare a passare tempo? Fece la doccia, lesse qualche pagina del libro di Montalbàn capendoci poco, tambasiò da una stanza all’altra ora raddrizzando un quadro ora rileggendo una lettera, una fattura, un appunto, toccando tutto quello che gli veniva a tiro di mano. Rifece la doccia, si sbarbò, procurandosi un taglio proprio sul mento. Addrumò il televisore e l’astutò subito, gli diede un senso di nausea. Finalmente si fece l’ora. Già pronto per uscire, volle mettersi in bocca un mostazzolo di vino cotto. Con autentico stupore s’accorse che il pacco sulla tavola era stato aperto, che dentro la guantiera di cartone non c’era più manco un dolce. Se li era mangiati tutti senza farci caso per il nervoso. E, quel ch’era peggio, non se li era nemmeno goduti.

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