Andrea Camilleri - Il cane di terracotta

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Il cane di terracotta: краткое содержание, описание и аннотация

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«Sei certo che dintra la casa non ci sia nessuno nzèmmula a Tano?».

Fazio ammutolì.

«Sentite a mia» fece Montalbano concludendo il breve consiglio di guerra «meglio che gli facciamo trovare l’ovo di Pasqua con la sorpresa».

Tre

Montalbano calcolò che da cinque minuti almeno Fazio e Gallo si dovevano essere appostati darrè la casuzza; in quanto a lui, stinnicchiato a panza per terra in mezzo all’erba, pistola in pugno, con una pietra che gli premeva fastidiosamente proprio sulla bocca dello stomaco, si sentiva profondamente ridicolo, gli pareva d’essere diventato un personaggio da film di gangster e non vedeva perciò l’ora di dare il segnale d’isare il sipario. Taliò Galluzzo che gli stava allato - Germanà era più lontano, verso destra - e gli spiò sussurrando:

«Sei pronto?».

«Sissi» rispose l’agente che, si vedeva, era tutto un fascio di nervi e sudava. Montalbano ne ebbe pena, ma non poteva certo andargli a contare che si trattava di una messinscena, dall’esito dubbio, è vero, però sempre di cartone.

«Vai!» gli ordinò.

Come lanciato da una molla compressa allo stremo, quasi non toccando terra, Galluzzo con tre salti arrivò alla casuzza, s’appiattì contro il muro a manca della porta. Parse non avere fatto faticata, però il commissario gli vide il petto che s’alzava e s’abbassava per il respiro affannato. Galluzzo impugnò bene il mitra e fece signo al commissario ch’era pronto per la seconda parte. Montalbano allora taliò verso Germanà che appariva non solo sireno, ma addirittura rilassato.

«Io vado» gli disse senza suono, muovendo esageratamente la bocca e sillabando.

«La copro io» arrispose Germanà allo stesso modo, indicando con un movimento della testa il mitra che teneva fra le mani.

Il primo balzo in avanti del commissario fu, se non da antologia, minimo da manuale: uno stacco da terra deciso ed equilibrato, degno di uno specialista di salto in alto, una sospensione d’aerea lievità, in atterraggio netto e composto che avrebbe meravigliato un ballerino. Galluzzo e Germanà che stavano a taliarlo da diversi punti di vista, ugualmente si compiacquero per la prestanza del loro capo. La partenza del secondo balzo fu calibrata meglio della prima, nella sospensione però successe qualcosa per cui di colpo Montalbano, da dritto che era, s’inclinò di lato come la torre di Pisa, mentre la ricaduta fu un vero e proprio numero da clown. Dopo avere oscillato spalancando le braccia alla ricerca di un appiglio impossibile", crollò pesantemente di fianco. Istintivamente Galluzzo si mosse per portargli adenzia, si fermò a tempo, si rimpiccicò contro il muro. Magari Germanà si susì di scatto, poi si riabbassò. Meno male che la cosa era finta, pensò il commissario, altrimenti Tano avrebbe potuto in quel momento abbatterli come birilli. Sparando i più sostanziosi santioni del suo vasto repertorio, Montalbano carponi si mise a cercare la pistola che nella caduta gli era scappata di mano. Finalmente la vide sotto una troffa di cocomerelli serbatici e appena ci calò in mezzo il vrazzo per pigliarla, tutti i cocomerelli scoppiarono e gli inondarono la faccia di simenza. Con una certa rabbiosa tristezza il commissario si rese conto di essere stato degradato da eroe di film di gangster a personaggio di una pellicola di Gianni e Pinotto. Oramai non se la sentiva più né di fare l’atleta né di fare il ballerino, percorse perciò i pochi metri che lo separavano dalla casuzza a passo svelto, stando solo tanticchia aggomitolato.

Taliandosi negli occhi, Montalbano e Galluzzo si parlarono senza parole e si misero d’accordo. Si piazzarono a tre passi dalla porta, che non pareva particolarmente resistente, tirarono il fiato e vi si scagliarono contro con tutto il peso dei loro corpi. La porta si rivelò essere fatta di carta velina o quasi, sarebbe bastata una manata a farla cedere, perciò i due si trovarono a essere proiettati all’interno. Il commissario arriniscì a fermarsi miracolosamente, invece Galluzzo, portato dalla violenza della sua stessa spinta, traversò la càmmara intera e andò a sbattere con la faccia contro il muro, scugnandosi il naso e restando mezzo assufficato dal sangue che aveva pigliato a sgorgare violento. Alla scarsa luce del lume a pitrolio che Tano aveva lasciato addrumato, il commissario ebbe modo d’ammirare l’arte di attore consumato del grecu. Fingendosi sorpreso nel sonno, balzò in piedi gridando bestemmie e si precipitò verso il kalashnikov che ora stava appuiato al tavolo e perciò lontano dalla branda. Montalbano fu pronto a recitare la sua parte di spalla, come viene chiamata in triatro.

«Fermo! In nome della liggi, fermo o sparo!» gridò con tutta la voce che aveva e sparò quattro colpi verso il soffitto. Tano s’immobilizzò, le vrazza alzate. Persuaso che nella càmmara di sopra ci fosse ammucciato quarcheduno, Galluzzo sparò una raffica di mitra verso la scala di legno. Da fuori, Fazio e Gallo, a sentire tutta quella sparatina, aprirono un fuoco di scoraggiamento contro la finestrina. Tutti dentro la casuzza erano rimasti intronati dai botti quando arrivò Germanà a metterci il carrico di undici:

«Fermi tutti o sparo».

Non ebbe manco il tempo di finire la minacciosa intimazione che si trovò spinto alle spalle da Fazio e Gallo, costretto a intrupparsi tra Montalbano e Galluzzo che, posato il mitra, aveva tirato fòra dalla sacchetta un fazzoletto col quale cercava d’attagnarsi il naso, il sangue gli aveva allordato la cammisa, la cravatta, la giacchetta. Gallo, a vederlo, s’innervosì.

«Ti ha sparato? Ti ha sparato, eh, quel cornuto?» fece arraggiato voltandosi verso Tano che se ne stava sempre, con santa pacienza, con le vrazza isate in attesa che le forze dell’ordine facessero ordine nel casino che stavano combinando.

«No, non mi sparò. Sbattii contro il muro» articolò malamente Galluzzo. Tano non taliava a nessuno, considerava la punta delle sue scarpe.

«Gli viene da ridere» pensò Montalbano e diede un ordine secco a Galluzzo: «Ammanettalo».

«E lui?» spiò a bassa voce Fazio.

«E lui, non lo riconosci?» disse Montalbano.

«Che facciamo ora?».

«Mettetelo in macchina e portatelo alla questura, a Montelusa. Strata facendo, chiami il questore, gli spieghi tutto e ti fai dire cosa dovete fare. Cercate che nessuno lo veda e lo riconosca. L’arresto deve per ora restare assolutamente segreto. Andate».

«E lei?».

«Io do una taliata alla casa, la perquisisco, non si sa mai».

Fazio e gli agenti, tenendo in mezzo Tano ammanettato, si mossero per uscire, Germanà teneva in mano il kalashnikov del prigioniero. Solo allora Tano u grecu isò la testa e taliò per un attimo Montalbano. Il commissario s’addunò che lo sguardo «di statua» era scomparso, ora quegli occhi erano animati, quasi ridenti.

Quando il gruppo dei cinque, al termine del viottolo, scomparve alla vista, Montalbano rientrò nella casuzza per cominciare la perquisizione. Infatti raprì la credenza, pigliò la bottiglia di vino che era ancora china a metà e se la portò all’ombra d’un ulivo, per scolarsela tutta in santa pace. La cattura del pericoloso latitante era stata felicemente portata a termine.

Mimì Augello, che pareva pigliato dal diavolo, appena vide comparire Montalbano in ufficio, se l’abbatté davanti per porco.

«Ma dove sei stato? Dove ti sei andato ad ammucciare? Che fine hanno fatto gli altri òmini? Ma ti pare modo di fare, buttana d’una buttana?».

Doveva essere veramente arraggiato per mettersi a parlare spartano: da tre anni che travagliavano assieme mai il commissario aveva sentito il suo vice dire parolazze. Anzi no: quella volta che uno stronzo sparò nella panza di Tortorella aveva reagito allo stesso modo.

«Mimì, che ti piglia?».

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