Andrea Camilleri - Il cane di terracotta

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Il cane di terracotta: краткое содержание, описание и аннотация

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«Mi dica sinceramente: a suo parere, sto sgherzando o facendo sul serio?».

Tortorella, che era presente all’incontro e conosceva certe reazioni del suo capo, visibilmente si rilassò.

«Mi lasci capire» fece Montalbano nel pieno possesso del suo controllo.

«E che c’è da capire, commissario? Tutto è chiaro lampanti come il sole. La merce arrubbata c’era tutta nel camion ritrovato, non mancava manco un palìco, uno stuzzicadenti, un lecca lecca. Allora: se non l’hanno fatto per arrubbare, l’hanno fatto per sgherzo, per garrusiare».

«Io sono tanticchia lento di testa, porti pacienza signor Ingrassia. Dunque, otto giorno fa da un autoparco di Catania, vale a dire dalla parte diametralmente opposta alla nostra, due persone s’appropriano di un camion con rimorchio della ditta Sferlazza. Il camion è in quel momento vacante. Per sette giorni questo camion se lo tengono ammucciato, nascosto da qualche parte nel tratto Catania-Vigàta, dato che non è stato visto in giro. Dunque, a rigore di logica, l’unico motivo per cui quel camion è stato arrubbato e ammucciato era quello di tirarlo fòra al momento giusto per fare uno sgherzo a lei. Vado avanti. Aieri notte il camion si materializza e verso l’una, quando strata strata c’è pochissima gente, si ferma davanti al suo supermercato. Il guardiano notturno pensa che si tratta di un rifornimento di merce, sia pure fatto ad ora stramma. Non sappiamo come sia andata esattamente la cosa, il guardiano ancora non arrinesci a parlare, il fatto certo è che lo mettono fòra combattimento, gli pigliano le chiavi, tràsino. Uno dei ladri spoglia il guardiano e ne indossa la divisa: questa è, sinceramente, una mossa geniale. Seconda mossa geniale, gli altri addrumano le luci e cominciano a travagliare alla sfaccialata, senza pricauzioni, alla luce del sole si potrebbe dire se non fosse notte. Ingegnoso, non c’è dubbio. Perché a uno straneo che viene a trovarsi nei paraggi e vede il guardiano in divisa che sorveglia alcune pirsune che travagliano per carricare un camion, non ci può passare manco per l’anticamera del ciriveddro che si tratta di un’arrubbatina. Questa è la ricostruzione fatta dal mio collega Augello che viene confermata dalla testimonianza del cavaliere Misuraca che stava tornandosene a casa».

Ingrassia, che pareva perdere interesse via via che il commissario parlava, a quel nome satò come pungiuto da una vespa.

«Misuraca?!».

«Sì, quello ch’era impiegato all’anagrafe».

«Ma è un fascista!».

«Non vedo cosa c’entrino le idee politiche del cavaliere con la facenna di cui stiamo parlando».

«E c’entrano sì! Perché quando io facevo politica, lui era mio nemico».

«Adesso non fa più politica?».

«Ma cosa vuole fare! Con questi quattro giudici di Milano che hanno deciso di distruggere la politica, il commercio e l’industria!».

«Senta, quello che ha detto il cavaliere non è altro che una pura e semplice testimonianza che avvalora il modus operandi dei ladri».

«Io me ne fotto di quello che avvalora il cavaliere. Dico solo che si tratta di un poviro vecchio stòlito che ha passato da un pezzo l’ottantina. Quello capace che vede un gatto e dice che è un elefante. E poi che ci faceva a quell’ora di notti?».

«Non lo so, glielo domanderò. Vogliamo tornare al nostro discorso?».

«Torniamoci».

«Terminato di fare il carrico al suo supermercato dopo almeno due ore di travaglio, il camion se ne riparte. Percorre cinque o sei chilometri, torna indietro, si va a posteggiare al distributore di benzina e lì resta fino a quando non arrivo io. E secondo lei hanno messo in piedi tutto questo mutupèrio, commesso mezza dozzina di reati, rischiato anni di galera solo per farsi o farle fare quattro risate?».

«Commissario, possiamo magari fare notti, ma io ci giuro che non arrinescio a pensare altro diverso dallo sgherzo».

Nel frigorifero trovò pasta fredda con pomodoro, vasalicò e passuluna, olive nere, che mandava un profumo d’arrisbigliare un morto, e un secondo piatto d’alici con cipolla e aceto: Montalbano usava affidarsi interamente alla fantasia culinaria ma gustosamente popolare d’Adelina, la cammarera, la fìmmina di casa che una volta al giorno veniva a dargli adenzia, madre di due figli irrimediabilmente delinquenti, uno dei quali stava ancora in galera per merito suo. Magari questo giorno Adelina dunque non l’aveva deluso, ogni volta che stava per raprire il forno o il frigo gli si riformava dintra la stessa trepidazione di quando, picciliddro, alla matina presto del due novembre cercava il canestro di vimini nel quale durante la notte i morti avevano deposto i loro regali. Festa ormai persa, cancellata dalla banalità dei doni sotto l’albero di Natale, così come facilmente adesso si cancellava la memoria dei morti. Gli unici a non scordarseli, i morti, anzi a tenacemente tenerne acceso il ricordo, restavano i mafiosi, ma i doni che inviavano in loro memoria non erano certo trenini di latta o frutti di martorana. La sorpresa insomma era un pimento indispensabile ai piatti d’Adelina.

Pigliò le pietanze, una bottiglia di vino, il pane, addrumò il televisore, s’assistimò a tavola. Gli piaceva mangiare da solo, godersi i bocconi in silenzio, fra i tanti legami che lo tenevano a Livia c’era magari questo, che quando mangiava non rapriva bocca. Pensò che in fatto di gusti egli era più vicino a Maigret che a Pepe Carvalho, il protagonista dei romanzi di Montalbàn, il quale s’abbuffava di piatti che avrebbero dato foco alla panza di uno squalo.

Tirava, a sentire le televisioni nazionali, una laida aria di malessere, la maggioranza governativa stessa si era venuta a trovare spaccata su una legge che negava la scarcerazione preventiva a gente che s’era mangiato mezzo paese, i magistrati che avevano scoperto gli altarini della corruzione politica annunziavano dimissioni di protesta, una leggera brezza di rivolta animava le interviste alla gente comune.

Passò alla prima delle due televisioni locali. «Televigàta» era governativa per fede congenita, quale che fosse il governo, rosso, nero o cilestrino. Lo speaker non faceva cenno alla cattura di Tano u grecu, diceva solo che alcuni solerti cittadini avevano segnalato al commissariato di Vigàta una tanto vivace quanto misteriosa sparatoria alle prime luci del mattino in una campagna detta «la noce», ma che gli investigatori, giunti immediatamente sul posto, non avevano riscontrato nulla d’anormale. Dell’arresto di Tano non fece cenno manco il giornalista di «Retelibera», Nicolò Zito, che non ammucciava d’essere comunista. Segno che la notizia fortunatamente non era riuscita a filtrare. Invece, del tutto inaspettatamente, Zito parlò dell’anomalo furto al supermercato d’Ingrassia e dell’inspiegabile ritrovamento del camion con tutta la merce che era stata portata via. Era opinione comune, riferì Zito, che l’automezzo fosse stato abbandonato in seguito a una lite fra i complici per la spartizione della refurtiva. Zito però non era d’accordo, secondo lui le cose dovevano essere andate diversamente, la questione era certamente assai più complessa.

«Commissario Montalbano, mi rivolgo direttamente a lei. Non è vero che la storia è più intricata di quanto appare?» domandò, concludendo, il giornalista.

A sentirsi chiamare di persona, a vedere gli occhi di Zito che lo taliavano dall’apparecchio mentre stava mangiando, a Montalbano andò di traverso il vino che stava bevendo, assufficò, tossì, santiò.

Finito di mangiare, indossò il costume da bagno e trasì in acqua. Era gelata, ma la nuotata lo rimise a vita.

«Mi racconti esattamente com’è andata» fece il questore.

Fatto trasìri il commissario nel suo ufficio, si era susùto, gli era andato incontro, l’aveva abbrazzato di slancio.

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