Andrea Camilleri - Il cane di terracotta
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- Название:Il cane di terracotta
- Автор:
- Издательство:Sellerio Editore
- Жанр:
- Год:1996
- Город:Palermo
- ISBN:8838912262,978-8838912269
- Рейтинг книги:4 / 5. Голосов: 1
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«Durò fino a tardi, la riunione?».
«Fino all’una di notte. Io volevo continuare, ma gli altri si sono opposti, cadevano di sonno. Gente senza palle».
«E quanto tempo c’impiegò per arrivare a Vigàta?».
«Una mezz’ora. Vado piano. Dunque come le stavo dicendo...».
«Mi scusi, cavaliere, mi chiamano all’altro telefono. A domani» tagliò Montalbano.
Cinque
«Peju dei delinquenti! Peju degli asasini ci hanno trattato quei figli di lorda buttana! E chi si credono d’èssiri? Strunzi!».
Non c’era verso di calmare Fazio, appena tornato da Palermo. Germanà, Gallo e Galluzzo gli facevano da coro salmodiarne, agitando a ruota il braccio destro per significare avvenimento inaudito.
«Cosi di pazzi! Cosi di pazzi!».
«Calma e gesso, ragazzi. Procediamo con ordine» intimò Montalbano mettendosi d’autorità. Poi, notando che Galluzzo aveva giacchetta e cammisa pulite dal sangue che gli era colato dal naso scugnato, gli spiò:
«Sei passato da casa a cangiarti prima di venire qua?».
La domanda fu un passo falso, perché Galluzzo diventò paonazzo, il naso gonfio per la botta si colorò di venature viola.
«Ca quali casa e casa! Non ce lo sta dicendo Fazio? Da Palermo veniamo, direttamente. Quando siamo arrivati dove ci sta l’Antimafia e abbiamo consegnato Tano u grecu, ci hanno pigliato e ci hanno messo ognuno in una càmmara diversa. Siccome che il naso mi faceva ancora male, ci volevo mèttiri sopra un fazzoletto vagnàto. Dopo una mezzorata ca non si vedeva nisciuno, ho aperto la porta. E mi sono trovato davanti un collega. Dove vai? Vado a cercarmi tanticchia d’acqua, mi vagno il naso. Non puoi nèsciri, torna dintra. Capito, commissà? Piantonato ero! Come se fossi stato io Tano u grecu!».
«Non dire quel nome e abbassa la voce!» lo rimproverò Montalbano. «Nessuno deve sapere che l’abbiamo pigliato! Il primo che parla lo spedisco all’Asinara a calci in culo».
«Tutti noi eravamo piantonati» ripigliò Fazio con la faccia sdignata.
Galluzzo continuò il suo racconto.
«Dopo un’orata trasì nella càmmara uno che canuscio, un suo collega che ora è passato all’Antimafia, Sciacchitano mi pare che si chiama».
«Bello stronzo» pensò fulmineo il commissario, ma non disse niente.
«Mi taliò come se fossi uno che faceva feto, un povirazzo che addimannava l’elemosina. Mi continuò a taliare per un pezzo e poi fece: lo sai che così conciato non puoi presentarti al signor prefetto?».
Ferito era rimasto dall’assurdo trattamento, a stento teneva bassa la voce.
«E il bello è che fece l’occhi incazzati, come se fosse stata corpa mia! Sinni niscì mormoriandosi. Poi arrivò un collega con una giacchetta e una cammisa pulite».
«Ora parlo io» intervenne Fazio avvalendosi del grado. «A farla breve, dalle tre di dopopranzo fino alla mezzanotti d’aieri a sira, ognuno di noi è stato interrogato otto volte da otto persone diverse».
«Che volevano sapere?».
«Com’era successo il fatto».
«Io per la verità sono stato interrogato dieci volte» disse con un certo orgoglio Germanà. «Si vede che le cose le so contare meglio e a loro gli pare di stare al cinematò».
«Verso l’una di notte ci hanno messo ’nzèmmula» proseguì Fazio, «ci hanno portato in un cammarone, una specie di ufficio granni, dove c’erano due divani, otto seggie e quattro tavoli. Hanno staccato i telefoni e se li sono portati via. Poi ci hanno mandato quattro panini fitùsi e quattro birre càvude che parevano pisciazza. Ci siamo accomidati alla meglio e alle otto di stamatina è venuto uno che ha detto che ce ne potevamo tornare a Vigàta. Manco bongiorno, manco scù o passiddrà come si dice ai cani che si vonno alluntanàri. Nenti».
«Va bene» fece Montalbano. «Che ci volete fare? Andate a casa, arriposatevi e tornate qua dopopranzo tardo. V’assicuro che questa storia gliela dico al questore».
«Pronto? Sono il commissario Salvo Montalbano di Vigàta. Vorrei parlare col commissario Arturo Sciacchitano».
«Rimanga in linea, per favore».
Montalbano pigliò un foglio di carta e una penna. Fece un disegno senza pensarci e solo dopo s’addunò che aveva disegnato un culo assittato sopra una tazza di retrè.
«Mi dispiace, il commissario è in riunione».
«Senta, gli dica che magari io sono in riunione, così siamo pari e patta. Lui interrompe la sua per cinque minuti, io faccio lo stesso con la mia e siamo tutti e due felici e contenti».
Aggiunse alcuni stronzi al culo che cacava.
«Montalbano? Che c’è? Scusami, ho poco tempo».
«Pure io. Senti, Sciacchitanov...».
«Come Sciacchitanov? Che cazzate dici?».
«Ah, non ti chiami così? Non fai parte del kappagibì?».
«Non ho voglia di scherzare».
«E io non sto scherzando. Ti telefono dall’ufficio del questore che è indignato per il modo, proprio da kgb, col quale hai trattato i miei uomini. Mi ha promesso che oggi stesso scriverà al ministro».
Il fenomeno era inspiegabile, eppure gli capitò: vide, attraverso il filo del telefono, impallidire Sciacchitano, universalmente noto per essere un pavido leccaculo. La menzogna di Montalbano aveva colpito l’altro come una sprangata in testa.
«Ma che stai dicendo? Tu devi capire che io, come responsabile della sicurezza...».
Montalbano l’interruppe.
«Sicurezza non esclude cortesia» fece lapidario, sentendosi come un cartello stradale del tipo "precedenza non esclude prudenza".
«Ma sono stato cortesissimo! Ho offerto loro birra e panini!».
«Mi dispiace dirti che malgrado la birra e i panini la cosa avrà un seguito in alto loco. Del resto, consòlati, Sciacchitano, non è colpa tua. Chi nasce tondo non può morire quadrato».
«Che vuol dire?».
«Vuol dire che tu, essendo nato stronzo, non puoi morire intelligente. Esigo una lettera, a me indirizzata, nella quale elogi ampiamente i miei uomini. La voglio entro domani. Ti saluto».
«Pensi che se io ti scrivo la lettera il questore non proceda?».
«Sarò onesto: io non so se il questore procederà o non procederà. Ma se fossi in te, io la lettera la scriverei. Per guardarmi le spalle. E magari ci metterei la data di ieri. Mi sono spiegato?».
S’era sfogato e si sentì meglio. Chiamò Catarella.
«È in ufficio il dottor Augello?».
«Nonsi, ma ora ora tilifonò. Disse così che calcolata una distanzia di una decina di minuti, fra una decina di minuti in ufficio viene».
Ne approfittò per mettere mano al rapporto finto, quello vero invece l’aveva scritto a casa sua la notte avanti. A un certo punto Augello tuppiò e trasì.
«M’hai cercato?».
«Ti costa proprio tanto venire in ufficio tanticchia prima?».
«Scusami, ma il fatto è che sono stato impegnato fino alle cinque di stamatina, poi sono tornato a casa, mi sono appinnicato e buonanotte».
«Sei stato impegnato con qualche buttana di quelle che ti piacciono? Di quelle che stazzano non meno di centoventi chili di carne?».
«Ma Catarella non t’ha detto niente?».
«M’ha detto che arrivavi in ritardo».
«Stanotte, verso le due, c’è stato un incidente mortale. Sono andato sul posto e ho pensato di lasciarti dormire, visto che la cosa per noi non aveva rilevanza».
«Per i morti forse la rilevanza c’è».
«Il morto, uno solo. S’è fatto la discesa della Catena a rotta di collo, evidentemente non gli funzionavano i freni, ed è andato a incastrarsi sotto a un camion che, in senso inverso, principiava la salita. Poverazzo, è morto sul colpo».
«Lo conoscevi?».
«Certo che lo conoscevo. E magari tu. Il cavaliere Misuraca».
«Montalbano? M’hanno appena telefonato da Palermo. Non solo è necessario fare la conferenza stampa, ma è importante che abbia una certa risonanza. Serve alle loro strategie. Verranno giornalisti da altre città, ne daranno notizia i telegiornali nazionali. Una cosa grossa insomma».
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