Andrea Camilleri - Il cane di terracotta

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Il cane di terracotta: краткое содержание, описание и аннотация

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«Come, che mi piglia? Mi sono scantato, mi sono!».

«Ti sei spaventato? E di che?».

«Qua hanno telefonato almeno sei persone. Contavano sempre cose diverse nei dettagli, però tutte concordavano nella sostanzia, un conflitto a foco con morti e feriti. Uno parlava di carneficina. Tu non c’eri a casa, Fazio e gli altri erano nisciuti con la macchina senza dire nenti a nisciuno... Ho pensato che due e due facessero quattro. Avevo torto?».

«No, non avevi torto. Però non te la devi pigliare con me, ma col telefono, è sua la corpa».

«Che ci trasi, il telefono?».

«C’entra, eccome! Perché oggi il telefono si trova magari nel più perso pagliaro di campagna. E allora che fa la genti che ha il telefono a portata di mano? Telefona. Conta cose vere, cose immaginate, cose possibili, cose impossibili, cose insugnate come nella comedia d’Eduardo, come si chiama, ah, Le voci di dentro , gonfia, sgonfia e sempre senza mai dire nome e cognome di chi sta parlando. Fanno i numeri verdi dove uno può dire le peggiori minchiate di questo mondo senza assumersene la responsabilità! E intanto gli esperti di mafia s’entusiasmano: in Sicilia cala l’omertà, cala la complicità, cala la paura! Non cala un cazzo, aumenta solo la bolletta della Sip».

«Montalbà, non m’intronare con le tue chiacchiere! È vero che ci sono stati morti e feriti?».

«Non è vero nenti. Non c’è stato conflitto, abbiamo sparato solo colpi in aria, Galluzzo s’è scugnato da solo il naso e quello si è arreso».

«Quello chi?».

«Un latitante».

«Sì, ma chi?».

L’arrivo di Catarella affannato lo levò dall’imbarazzo della risposta.

«Dottori, ci sarebbi al tilifono il signor quistore».

«Poi ti dico» fece Montalbano tuffandosi nel suo ufficio.

«Carissimo amico sono qui a porgerle le più vive felicitazioni!».

«Grazie».

«Ha messo a segno un bel colpo, sa!».

«Siamo stati fortunati».

«Pare che il personaggio in questione sia assai più importante di quanto egli stesso abbia sempre voluto far apparire».

«Dov’è attualmente?».

«In viaggio per Palermo. All’Antimafia hanno voluto così, non ci sono stati santi. I suoi uomini non si sono potuti nemmeno fermare a Montelusa, hanno dovuto proseguire. Io ci ho aggiunto una macchina di scorta con quattro dei miei».

«Quindi lei non ha parlato con Fazio?».

«Non ne ho avuto né tempo né modo. Della faccenda ignoro quasi tutto. Perciò le sarei grato se potesse oggi pomeriggio passare da me in ufficio e raccontarmi anche i dettagli».

«Questo è l’intoppo» pensò Montalbano ricordandosi di una traduzione ottocentesca del monologo di Amleto. Ma si limitò a spiare:

«A che ora?».

«Diciamo verso le cinque. Ah, da Palermo raccomandano l’assoluto silenzio sull’operazione, almeno per ora».

«Se dipendesse solo da me...».

«Non dicevo per lei, io la conosco benissimo, posso assicurare che al suo confronto i pesci sono una razza loquace. Senta, a proposito».

Ci fu una pausa, il questore si era interrotto e Montalbano non aveva gana di sentirlo parlare, un campanello fastidioso aveva pigliato a suonargli nella testa a quell’elogiativo: «io la conosco benissimo».

«Senta, Montalbano» riattaccò esitante il questore, mentre a quell’esitazione il campanello suonava più forte.

«Mi dica».

«Penso che questa volta non riuscirò a evitarle la promozione a vicequestore».

«Madunnuzza biniditta! Ma pirchì?».

«Non sia ridicolo, Montalbano».

«Mi scusi, ma perché devo essere promosso?».

«Che domanda! Per quello che lei ha fatto stamattina».

Montalbano provò friddo e càudo nello stesso momento, aveva la fronte sudata e la schina aggelata, la prospettiva l’atterriva.

«Signor questore, io non ho fatto niente di diverso da quello che fanno ogni giorno i miei colleghi».

«Non lo metto in dubbio. Però questo arresto in particolare, quando sarà conosciuto, farà molto rumore».

«Non c’è speranza?».

«Via, non faccia il bambino».

Il commissario si sentì come un tonno nella càmmara della morte, l’aria principiò a mancargli, raprì e chiuse la bocca a vacante, poi tentò una sortita alla disperata.

«Non potremmo dire che è colpa di Fazio?».

«Come, colpa?».

«Scusi, mi sono sbagliato, volevo dire merito».

«A più tardi, Montalbano».

Augello, che lo postiava darrè la porta, fece una faccia interrogante.

«Che t’ha detto il questore?».

«Abbiamo parlato della situazione».

«Mah! Hai una faccia!».

«Come ce l’ho?».

«Sbattuta».

«Non ho digerito quello che ho mangiato aieri a sira».

«Che hai mangiato di bello?».

«Una chilata e mezza di mostazzoli di vino cotto».

Augello lo taliò sbalordito e Montalbano che sentiva arrivare la domanda sul nome del latitante arrestato, ne approfittò per cangiare discorso e mettere l’altro su una rotta diversa.

«L’avete trovato poi il guardiano notturno?».

«Quello del supermercato? Sì, l’ho trovato io. I ladri gli hanno dato una gran botta in testa, l’hanno imbavagliato, legato mani e pedi, l’hanno catafottuto dintra un grande congelatore».

«È morto?».

«No, però credo che lui non si senta manco vivo. Quando l’abbiamo tirato fòra pareva uno stoccafisso gigante».

«Hai pinsàto a una strata?».

«Io un mezzo pinsèro ce l’ho, il tenente dell’Arma ce n’ha uno diverso, ma una cosa è sicura: per portarsi via tutto quel materiale hanno usato un camion grosso. A carricare, deve averci badato una squatra di almeno sei pirsune comandate da qualche professionista».

«Senti, Mimì, io faccio un salto a casa, mi cangio d’abito e poi torno».

Verso Marinella s’addunò che la spia del serbatoio aveva pigliato a lampeggiare. S’arrestò al distributore dove qualche tempo prima era successa una sparatoria e lui aveva dovuto fermare il benzinaro per fargli dire tutto quello che aveva visto. Il benzinaro, che non gli portava rancore, appena lo vide lo salutò con quella sua voce dal registro acuto che lo faceva rabbrividire. Fatto il pieno, il benzinaro contò il denaro e poi taliò il commissario.

«Che c’è? Ti ho dato di meno?».

«Nonsi, i sordi giusti sono. Le volevo dire una cosa».

«E dilla» fece impaziente Montalbano, se quello parlava ancora tanticchia gli saltavano i nervi.

«Taliassi chiddru camion».

E gl’indicò un grosso automezzo col rimorchio fermo nello spiazzo darrè il distributore, i teloni ben tirati ad ammucciare il carico.

«Stamattina prestu» continuò «quanno ho aperto, il camion stava già qua. Sono passate quattro ore e non è ancora venuto nuddru a pigliarselo».

«Hai visto se qualcuno dorme nella cabina?».

«Sissi, nun c’è nuddru. E c’è n’autra cosa stramma, le chiavi stanno appizzate al loro posto, il primo che passa può mèttili in moto e arrubbarselo».

«Fammi vedere» disse Montalbano di colpo interessato.

Quattro

Minuto, baffetti a coda di sorcio, sorrisino ’ntipatico, occhiali con montatura d’oro, scarpe marrò, quasette marrò, completo marrò, cammisa marrò, cravatta marrò, più che altro un incubo in marrò, Carmelo Ingrassia, il proprietario del supermercato, si stirò con le dita la piega del cazùne destro che teneva accavallato sul sinistro e ripeté per la terza volta la sua sintetica interpretazione dei fatti.

«È stato uno sgherzo, commissario, mi hanno voluto fare una babbiata».

Montalbano si perse a fissare la penna a sfera che teneva in mano, si concentrò sul cappuccio, l’estrasse, l’esaminò dintra e fòra come se non avesse mai visto prima un aggeggio simile, soffiò nella parte interna del cappuccio per puliziarlo da qualche invisibile granello di polvere, lo taliò nuovamente, non rimase assoddisfatto, vi soffiò ancora, lo posò sulla scrivania, svitò la punta di metallo, ci pinsò sopra tanticchia, la sistemò allato al cappuccio, considerò attentamente la parte centrale che gli restava in mano, l’allineò vicino agli altri due pezzi, sospirò profondamente. Era così arrinisciuto a darsi una calmata, a dominare l’impulso, che per un attimo l’aveva quasi sopraffatto, di susìrisi, accostarsi a Ingrassia, spaccargli la faccia con un pugno e poi spiargli:

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