Andrea Camilleri - Il cane di terracotta
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- Название:Il cane di terracotta
- Автор:
- Издательство:Sellerio Editore
- Жанр:
- Год:1996
- Город:Palermo
- ISBN:8838912262,978-8838912269
- Рейтинг книги:4 / 5. Голосов: 1
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Il cane di terracotta: краткое содержание, описание и аннотация
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Due
Montalbano si voltò adascio, quasi a bilanciare la sorda, improvvisa raggia per essersi lasciato pigliare di spalle alla sprovvista come un principiante. Per quanto fosse stato sull’allarme, non aveva avuto modo di sentire la minima rumorata.
«Uno a zero a favore tuo, cornuto!» pensò.
Benché non l’avesse mai veduto di prisenza, lo riconobbe subito: rispetto alle segnaletiche di qualche anno avanti, Tano s’era fatto crescere barba e baffi, ma gli occhi erano sempre quelli, mancanti d’ogni espressione, «di statua» come aveva efficacemente detto Gegè.
Tano u grecu s’inchinò leggermente e non c’era nel suo gesto manco il più lontano sospetto di scòncica, di presa in giro. Automaticamente Montalbano ricambiò il mezzo inchino. Tano buttò la testa indietro e rise.
«Paremo due giapponisi, quelli guerrieri con la spada e la corazza. Come si chiamano?».
«Samurai».
Tano allargò le braccia, quasi volesse stringere a sé l’omo che gli stava davanti.
«Al piacere d’accanuscìri pirsonalmente di pirsona il famoso commissario Montalbano».
Montalbano decise di togliere di mezzo le cerimonie e d’attaccare subito, tanto per mettere l’incontro nel suo giusto terreno.
«Non so quanto piacere potrà avere dalla mia conoscenza».
«Uno, intanto, di piacìri me lo sta facendo provare».
«Si spieghi».
«Mi sta dando del lei, poco le pare? Non c’è stato uno sbirro che sia uno, e ne ho incontrati tanti, che m’abbia dato del lei».
«Lei si renderà conto, lo spero, che io rappresento la legge, mentre lei è un latitante pericoloso e pluriomicida? E ci troviamo faccia a faccia».
«Io sono disarmato. E lei?».
«Magari io».
Tano buttò nuovamente la testa all’indietro, rise a gola piena.
«Mai mi sono sbagliato sulle pirsune, mai!».
«Armato o no, io devo arrestarla lo stesso».
«E io qua sono, commissario, per farmi arrestare da lei. Ho voluto vederla apposta».
Era sincero, non c’era dubbio, ma fu proprio quella scoperta sincerità a far sì che Montalbano s’inquartasse a difesa, non riuscendo a capire dove Tano volesse arrivare.
«Poteva venire al commissariato e costituirsi. Qui o a Vigàta è la stessa cosa».
«Eh no, duttureddru, non è la stessa cosa, mi meraviglio di lei che sapi lèggiri e scriviri, le parole non sono uguali. Io mi faccio arrestare, non mi costituisco. Si pigliassi la giacchetta che ne parliamo dintra, io intanto rapro la porta».
Montalbano staccò la giacca dal ramo d’ulivo, se la mise sul braccio, entrò in casa seguendo Tano. Dintra era completamente scuro, u grecu addrumò un lume a pitrolio, fece cenno al commissario d’assittàrisi su una delle due seggie che erano allato a un piccolo tavolo. Nella càmmara c’erano una branda col solo matarazzo, senza cuscino o linzòla, uno scaffaletto a vetri con dintra bottiglie, bicchieri, gallette, piatti, pacchi di pasta, buatte di salsa, scatolame. C’era una cucina a legna con sopra pignate e pentole. Una scala di legno malandata portava al piano di sopra. Ma gli occhi del commissario si soffermarono su un animale assai più pericoloso della lucertola che dormiva nel cassetto del cruscotto della sua macchina, questo era un vero e proprio serpente velenoso, un mitra che sonnecchiava in piedi, appoggiato al muro, allato alla branda.
«Haiu del vino buono» fece Tano come un vero padrone di casa.
«Grazie sì» disse Montalbano.
Tra il freddo, la nuttata, la tensione, il chilo e passa di mostazzoli che s’era sbafato, del vino ne sentiva veramente il bisogno.
U grecu versò, alzò il bicchiere.
«Alla saluti».
Il commissario alzò il suo, ricambiò l’augurio.
«Alla sua».
Il vino era cosa di considerazione, se ne calava ch’era una billizza, passando dava conforto e calore.
«E veramente bono» si complimentò Montalbano.
«Un altro?».
Il commissario, per non cadere in tentazione, allontanò con un gesto brusco il bicchiere.
«Vogliamo parlare?».
«Parliamo. Dunque, io le ho detto che ho deciso di farmi arrestare...».
«Perché?».
La domanda di Montalbano, a pistolettata, lasciò l’altro imparpagliato. Fu un attimo, si ripigliò.
«Ho bisogno di farmi curare, sono malato».
«Mi permette? Dato che lei pensa di conoscermi bene, saprà magari che io sono pirsuna che non si fa pigliare per il culo».
«Ne sono persuaso».
«Allora perché non mi rispetta e la finisce di contarmi minchiate?».
«Lei non ci crede che sono malato?».
«Ci credo. Ma la minchiata che lei vuole farmi ammuccare è che per essere curato lei ha necessità di farsi arrestare. Se vuole, mi spiego. Lei è stato ricoverato per un mese e mezzo alla clinica Madonna di Lourdes di Palermo, e poi per tre mesi alla clinica Getsemani di Trapani dove il professor Amerigo Guarnera l’ha magari operato. Se lei lo vuole, oggi stesso, malgrado le cose stiano in modo leggermente diverso di qualche anno fa, trova più di una clinica disposta a chiudere un occhio e a non segnalare la sua presenza alla polizia. Quindi la ragione per la quale lei vuole farsi arrestare non è quella della malattia».
«Se le dicessi che i tempi cangiano e che la rota gira di corsa?».
«Questo mi convince di più».
«Vede, la bonarma di me patre, che era omo d’onore ai tempi in cui la parola onore significava, spiegava a mia picciliddro che il carretto sul quale viaggiavano gli uomini d’onore aveva bisogno di molto grasso per fare girare le rote, per farle caminare spedite. Poi, passata la generazioni di me patre, quando fui io ad acchianare sul carretto, quarcheduno dei nostri disse: ma perché dobbiamo continuare ad accattare il grasso che ci serve dai politici, dai sìnnaci, da quelli che hanno le banche e compagnia bella? Fabbrichiamolo nuatri, il grasso che ci serve! Bene! Bravo! Tutti d’accordo. Certu, c’era sempre chi arrubbava il cavallo del compagno, chi impediva una certa strata al suo socio, chi si metteva a sparare all’urbigna su carretto, cavallo e cavaliere di un’altra congrega... Tutte cose però che si potevano mèttiri a posto tra noi. I carretti si moltiplicarono, ci furono più strate da caminare. A un certo momento un grandi ingegnu fece na bella pinsata, si addumandò che cosa significasse continuare a caminari col carretto. Siamo troppo lenti - spiegò - ci fottono in velocità, tutto il mondo ora camìna con la machina, non si può ammucciare il progresso! Bene! Bravo! E tutti a correre a cangiare il carretto per l’automobile, a pigliàrisi la patente. Quarcheduno però non ce la fici a passare l’esame alla scola di guida e se ne niscì, o lo fecero nèsciri, fòra. Non ci fu manco u tempu di pigliare confidenza con la machina nova che i più picciotti di noi, che in automobile ci andavano da quando erano nasciuti e che avevano studiato liggi o economia negli Stati o in Germania, ci fecero sapiri che le nostre machine erano troppo lente, che ora come ora abbisognava satare sopra una machina da corsa, una Ferrari, una Maserati, addubbata di radiotelefono e fàcchisi, ed essere capaci di partire come un furgarone. Questi picciotti sono nuovi nuovi, parlano con gli apparecchi e non con le persone, manco ti canusciono, non sanno chi sei stato, e se lo sanno se ne fottono allegramente, manco fra loro capace che s’accanuscino, si parlano col computer. A farla breve, questi picciotti non taliano in faccia a nisciuno, appena ti vedono in difficortà con una machina lenta, ti jettano fòra strata senza pinsarci due volte e tu ti ritrovi dintra un fosso con l’ossa del collo rotte».
«E lei la Ferrari non la sa portare».
«Esatto. Perciò, prima di morire in un fosso, è meglio che mi tiro sparte».
«Lei però non mi pare il tipo che si tira sparte di testa sua»
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