Andrea Camilleri - Il cane di terracotta

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Il cane di terracotta: краткое содержание, описание и аннотация

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Ora Montalbano aveva questo, che era assolutamente incapace di mentire, di contare una farfanterìa a persone che sapeva oneste o che stimava. Davanti a delinquenti, a gente che non lo quatrava, era invece capace di sparare smàfari a faccia stagnata, poteva sostenere d’avere visto la luna pizzi pizzi, merlettata. Il fatto che non solo stimasse il suo superiore, ma che certe volte gli avesse parlato come a un patre, lo mise, a quella richiesta, in agitazione, diventò rosso, sudò, cangiò più volte posizione sulla seggia come se fosse quella del malo stare. Il questore notò il disagio del commissario, ma l’attribuì alla sofferenza autentica che Montalbano provava ogni volta che doveva parlare di una sua azione ben riuscita. Il questore non dimenticava che all’ultima conferenza stampa, davanti alle telecamere, il commissario si era espresso, si fa per dire, con un lungo e penoso balbettìo, a tratti destituito da ogni senso comune, con gli occhi sbarrati e le pupille che ballavano ’mbriache.

«Vorrei un consiglio, prima di mettermi a contare le cose».

«A disposizione».

«Che devo scrivere nel rapporto?».

«Che domanda è, mi scusi? Non ha mai scritto rapporti? Nei rapporti si scrivono i fatti accaduti» rispose secco e tanticchia strammato il questore. E visto che l’altro ancora non si decideva a parlare, proseguì. «A proposito. Lei ha saputo abilmente e coraggiosamente trarre profitto da un incontro casuale e mutarlo in una riuscita operazione di polizia, d’accordo, ma...».

«Ecco, volevo dirle...».

«Mi lasci finire. Ma sono costretto a rilevare che lei ha rischiato molto e fatto rischiare molto ai suoi uomini, avrebbe dovuto chiedere rinforzi consistenti, prendere doverose precauzioni. Fortunatamente tutto è andato bene, ma è stata una scommessa, questo glielo voglio dire in tutta sincerità. E ora mi dica».

Montalbano si taliò le dita della mano mancina come se gli fossero spuntate improvvisamente e lui non sapesse a cosa dovevano servire.

«Che c’è?» spiò paziente il questore.

«C’è che è tutto fàvuso» esplose Montalbano. «Non c’è stato nessun incontro casuale, sono andato a trovare Tano perché lui aveva domandato di vedermi. E in quell’incontro ci siamo messi d’accordo».

Il questore si passò una mano sugli occhi.

«Vi siete messi d’accordo?».

«Al cento per cento».

E dato che c’era, gli contò tutto, dalla telefonata di Gegè fino alla messinscena della cattura.

«C’è altro?» spiò alla fine il questore.

«Sì. C’è che stando così le cose, io non mi merito nessuna promozione a vicequestore. Se fossi promosso, sarebbe per una falsità, un inganno».

«Questo lo lasci decidere a me» disse brusco l’altro.

Si susì, si mise le mani darrè la schina, rimase un pezzo a pensare. Poi s’arrisolvette e si voltò.

«Facciamo così. Rapporti me ne scriva due».

«Due?!» fece Montalbano pensando alla fatica che gli faceva in genere mettere nero su bianco.

«Non stia a discutere. Il finto me lo tengo in bella evidenza per l’immancabile talpa che si preoccuperà di trasmetterlo alla stampa o alla mafia. Quello vero me lo metto in cassaforte».

Fece un sorriso.

«E per la faccenda della promozione, che mi pare essere la cosa che la terrorizza di più, venga venerdì sera a casa mia, ne riparleremo con calma. Lo sa? Mia moglie s’è inventata uno strepitoso sughetto speciale per le àiole».

Il cavaliere Gerlando Misuraca, anni ottantaquattro bellicosamente portati, non si smentì, attaccò turilla appena il commissario ebbe detto: «Pronto?».

«Chi è quel fesso di centralinista che m’ha passato lei?».

«Perché, che ha fatto?».

«Non capiva il mio cognome! Non riusciva a trasìricci in quella tistazza ferrigna! Bisurata mi chiamava, come la magnesia!».

Fece una pausa sospettosa, cangiò tono di voce.

«Lei mi garantisce, sul suo onore, che si tratta solo di una povera testa di cazzo?».

Pensando che a rispondere era stato Catarella, Montalbano risultò convincente.

«Glielo posso garantire. Ma perché vuole la garanzia, mi scusi?».

«Perché se aveva invece intenzione di sfottermi, o sfottere ciò che io rappresento, fra cinque minuti arrivo in commissariato e gli spacco il culo, quant’è vero Dio!».

«Ma cosa rappresenta il cavaliere Misuraca?» si spiò Montalbano mentre l’altro continuava a minacciare cose terribili. Niente, assolutamente niente dal punto di vista, come dire, ufficiale. Impiegato comunale da gran tempo in pensione, non ricopriva né aveva ricoperto cariche pubbliche, nel suo partito era un semplice tesserato. Omo d’onestà inattaccabile, campava dignitosamente da quasi povero, manco ai tempi di Mussolini aveva voluto approfittarsi, era sempre stato fedele gregario, come si diceva allora. In compenso, dal ’35 in poi, si era fatto tutte le guerre ed era venuto a trovarsi in mezzo alle peggio battaglie, non se n’era persa una, pareva dotato d’ubiquità, da Guadalajara in Spagna a Bir el Gobi in Africa settentrionale, passando per Axum in Etiopia. Poi la prigionia in Texas, il rifiuto a collaborare, una prigionia più dura come conseguenza, a pane e acqua. Rappresentava quindi - concluse Montalbano - la memoria storica di errori storici, certo, ma da lui vissuti con ingenua fede e pagando di persona: tra ferite piuttosto serie, una lo faceva zoppicare dalla gamba mancina.

«Ma lei, se fosse stato in grado di farlo, sarebbe andato a combattere a Salò, coi tedeschi e i repubblichini?» gli aveva un giorno spiato a tradimento Montalbano che a modo suo gli voleva bene. Già. perché in quel gran cinematografo di corruttori, corrotti, concussori, mazzettisti, tangentari, mentitori, ladri, spergiuri, a cui ogni giorno s’aggiungevano nuove sequenze, il commissario, verso le persone che sapeva inguaribilmente oneste, da qualche tempo principiava a nutrire un senso d’affetto.

Alla domanda, aveva visto il vecchio come svacantarsi dall’interno, le rughe sulla faccia gli si erano moltiplicate mentre lo sguardo si faceva nebbioso. Aveva allora capito che quello stesso interrogativo Misuraca se l’era posto migliaia di volte e mai aveva saputo darsi una risposta. Non insistette.

«Pronto? C’è ancora?» spiò la voce stizzosa di Misuraca.

«Mi dica, cavaliere».

«M’è tornata a mente una cosa, per questo non la dissi quando venni a testimoniare».

«Cavaliere, non ho motivo di dubitare. L’ascolto».

«Una cosa stramma che mi successe quand’ero quasi arrivato all’altezza del supermercato, ma io in quel momento non ci diedi importanza, ero nirbùso e agitato perché ci sono in giro dei cornuti che...».

«Me la vuole dire?».

A lasciarlo parlare, il cavaliere capace che la pigliava dalla fondazione dei fasci di combattimento.

«Per telefono, no. Di prisenza. È cosa grossa assai, se ho visto giusto».

Il vecchio passava per uno che diceva sempre quello che c’era da dire, senza metterci carrico o levare peso.

«Riguarda il furto al supermercato?».

«Certo».

«Ne ha già parlato con qualcuno?».

«Con nisciuno».

«Mi raccomando. Bocca serrata».

«Vuole offendermi? Io una tomba sono. Domani a matino presto vengo nel suo ufficio».

«Cavaleri, una curiosità. Che ci faceva lei a quell’ora di notti, in machina, solo e nirbùso? Lo sa che a una certa età ci voli prudenza?».

«Venivo da Montelusa. C’era stata una riunione del direttivo provinciale e io, sebbene non ne faccia parte, ho voluto essere presente. Nessuno è capace di chiudere una porta in faccia a Gerlando Misuraca. Bisogna impedire che il nostro partito perda la faccia e l’onore. Non può stare al governo con questi figli bastardi di politici bastardi ed essere d’accordo con loro a fare un decreto che permette d’uscire dalla galera a quei figli di buttana che si sono mangiata la nostra patria! Lei deve capire, commissario, che...».

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