Lev Tolstoj - Guerra e pace. Ediz. integrale

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Scritto tra il 1863 e il 1869 e pubblicato per la prima volta tra il 1865 e il 1869 sulla rivista Russkij Vestnik, riguarda principalmente la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, tra le guerre napoleoniche, la campagna napoleonica in Russia del 1812 e la fondazione delle prime società segrete russe. Per la precisione con cui i diversissimi piani del racconto si innestano all'interno del grande disegno monologico e filosofico dell'autore Lev Tolstoj, Guerra e pace potrebbe definirsi la più grande prova di epica moderna, e un vero e proprio «miracolo» espressivo e tecnico. Guerra e pace è considerato da molti critici un romanzo storico, in quanto offre un ampio affresco della nobiltà russa nel periodo napoleonico.

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— Non vorreste passare all’altra tavola? – insinuò la Scherer. Ma Piero, senza risponderle, si scaldava sempre più.

— No, no! Napoleone è grande, poichè si elevò più alto della rivoluzione, ne soffocò gli abusi, ne conservò quanto c’era di buono: l’eguaglianza dei cittadini, la libertà di parola e di stampa, e solo per questo conquistò il potere.

— Sì, – disse il visconte, – se dopo conquistato il potere, non se ne fosse servito per un assassinio, e l’avesse consegnato al legittimo re, allora sì lo chiamerei un grand’uomo.

— Cotesto non gli era possibile. Il popolo gli aveva appunto dato il potere per esser liberato dai Borboni e perchè vedeva in lui un grand’uomo. La rivoluzione fu un grande evento, – proseguì Piero più che mai esaltato ed ansioso, giovane com’era, di spiegar tutto intero il suo pensiero.

— La rivoluzione un grande evento?... compreso il regicidio?... Dopo questo poi... ma non vorreste passare all’altra tavola? – ripetette Anna Scherer.

— Rousseau, Contratto sociale, – insinuò con fine sorriso il visconte.

— Io non parlo del regicidio. Parlo dell’idea.

— Già, l’idea del furto, dell’assassinio e del regicidio.

— Cotesti, s’intende, sono gli eccessi. Ma quel che importa sono i diritti dell’uomo, l’emancipazione dai pregiudizi, l’eguaglianza fra i cittadini; e queste idee Napoleone mantenne salde in tutta la loro forza.

— Libertà, eguaglianza, – pronunciò il visconte in tono sprezzante, come deciso oramai a dimostrare a quel giovanotto tutta la balordaggine dei suoi discorsi, – paroloni che han fatto il loro tempo. Chi è che non ami la libertà e l’eguaglianza? Anche Cristo le predicava. O che forse, dopo la rivoluzione, si fu più felici? Tutt’al contrario. Noi volevamo la libertà, e Napoleone la distrusse.

Il principe Andrea guardava sorridendo ora a Piero, ora al visconte, ora alla padrona di casa. Costei sulle prime s’era spaventata; ma quando vide che le bestemmie di Piero non facevano uscir dai gangheri il visconte e che ad ogni modo non era possibile soffocarle, raccolse tutte le sue forze, si unì al francese, e diè addosso all’oratore.

— Ma voi, – disse, – caro signor Piero, come mi spiegate un grand’uomo che si decide a trucidare il duca, un suo simile, senza giudizio, senza accusa, senza ombra di colpa?

— Ed io, – rincalzò il visconte, – vorrei pregare il signore di spiegarmi il 18 brumaio. Non fu quello un inganno? non fu una ladreria bella e buona, indegna di un grand’uomo?

— E i prigionieri in Africa, che fece uccidere? – disse la piccola principessa. – Che orrore!

— Voltatela come volete, è un avventuriero, – sentenziò il principe Ippolito.

Piero non sapeva a chi rispondere, e girava gli occhi intorno con un sorriso bonario, infantile, poco meno che balordo e supplichevole.

Il visconte, che per la prima volta lo vedea, capì subito che quel giacobino era meno terribile delle parole che gli uscivano di bocca.

— Ma come volete ch’egli risponda a tutti? – disse il principe Andrea. – Badate poi che nelle azioni di un uomo di stato, bisogna distinguere quelle dell’individuo privato, del condottiero e del sovrano. Così almeno mi pare.

— Sicuro, sicuro, – approvò Piero, tutto lieto di quellinaspettato soccorso.

— Non si può disconvenire, – riprese il principe Andrea, – che Napoleone, come uomo, è veramente grande al ponte d’Arcole, nell’ospedale di Giaffa dove stringe la mano ai lebbrosi; ma... ma ci sono in lui altre azioni, che non è facile giustificare.

Ciò detto, per riparare alla meglio ai discorsi malaccorti di Piero, si alzò per andar via e fece un segno alla moglie.

***

Di botto, sorse in piedi il principe Ippolito, stese le mani pregando che nessuno si movesse, e disse:

— Mi hanno raccontato oggi una graziosissima storiella seguita a Mosca. Non c’è rimedio, bisogna che ve la dica... Una signora, una certa signora, avara fino all’osso, volea per forza avere due lacchè dietro la carrozza. E li voleva alti, vistosi. Ora questa signora aveva una cameriera, un donnone tanto fatto. E allora disse... cioè no, chiamò la cameriera e le disse: «Infila la livrea e monta dietro alla carrozza. Vado a far delle visite...» Che ridere, eh? che idea! ah, ah, ah!

Nessuno rise, visto che il narratore rideva per tutti. Parecchi, fra i quali la signora attempata e Anna Scherer, sbozzarono un mezzo sorriso di compiacenza.

— E così, andò. Di botto, eccoti che si leva un gran vento, e porta via come una piuma il cappello della cameriera. Quadro!... I capelli della donna si sciolgono, ondeggiano, sbattono, s’imbrogliano... ah, ah, ah!... una scena da tenersene i fianchi... ah, ah, ah!... e tutti vennero a sapere...

Qui l’aneddoto si chiuse. Nessuno capì a che proposito fosse narrato; ma la padrona di casa e qualche altro furono grati al principe Ippolito che così opportunamente metteva termine alla sconveniente uscita di Piero.

Dopo l’aneddoto, la conversazione si frazionò in dialoghi e frasi insignificanti su questo e quel ballo, sugli spettacoli della stagione, sul quando e il dove dei prossimi convegni.

V

Ringraziando Anna Scherer per la incantevole serata, gli ospiti presero ad accomiatarsi.

Piero era la goffaggine incarnata. Largo, massiccio, più alto del naturale, con le mani grossolane e rosse, non sapeva, come si suol dire, entrare in un salone nè uscirne. Non trovava parole acconce per congedarsi. Peggio ancora, era distratto. Alzandosi per andar via, invece di prendere il proprio cappello, pigliò a caso il tricorno piumato di un generale e se lo tenne in mano, tirandone il pennacchio, fino a che non ne fu richiesto dal proprietario. Ma tutta la sua distrazione e la goffaggine erano compensate dall’espressione costante di modestia e di semplice bonarietà. Anna Scherer gli si volse con un cenno di saluto, perdonandogli con cristiana rassegnazione la recente scappata.

— Spero che vi farete vedere, – disse; – ma spero anche, caro signor Piero, che muterete alquanto le vostre idee.

Egli s’inchinò senza rispondere, e tornò a sorridere a tutti, come per dire: «Le idee sono idee; ma voi vedete che bravo ragazzo son io!» E tutti, compresa la padrona di casa, n’erano persuasi.

Il principe Andrea uscì nell’anticamera, e volte le spalle al cameriere che gli metteva il mantello, porgeva orecchio indifferente al chiacchierio della moglie col principe Ippolito. Stava questi vicino alla vezzosa donnina e la guardava fiso attraverso le lenti.

— Via, Annetta, ritiratevi, v’infredderete, – disse la piccola principessa, accomiatandosi dalla Scherer. – Sta bene, – soggiunse a bassa voce.

La Scherer le avea già parlato dell’ideato matrimonio tra Anatolio e la cognata della piccola principessa.

— Conto su voi, cara amica, – disse anche piano. – Scrivetele. Poi mi farete sapere che cosa ne pensa il padre. A rivederci.

Allontanatasi la Scherer, il principe Ippolito si avvicinò alla piccola principessa e prese a bisbigliarle qualche cosa in francese.

I due rispettivi camerieri, l’uno con in mano lo scialle, l’altro col soprabito, aspettavano che il discorso finisse, facendo le viste di capire ma di non volerlo mostrare. La principessa, come sempre, parlava e ascoltava sorridendo.

Son proprio contento di non essere andato dall’ambasciadore, – disse il principe Ippolito. – Che noia!... Bella serata questa qui, splendida, non è vero?

— Dicono però che il ballo sarà magnifico, – rispose la principessa, sollevando il labbro ornato di baffetti. – Ci saranno tutte le belle donne di Pietroburgo.

— Tutte no, perchè non ci sarete voi; tutte no, – disse il principe Ippolito, ridendo; – e tolto lo scialle dalle mani del cameriere, cui diè perfino uno spintone, prese ad acconciarlo sulle spalle della principessa. Per incapacità o di proposito, non ritirò subito le mani, e parve quasi che abbracciasse la giovane dama.

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