Lev Tolstoj - Guerra e pace. Ediz. integrale

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Guerra e pace. Ediz. integrale: краткое содержание, описание и аннотация

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Scritto tra il 1863 e il 1869 e pubblicato per la prima volta tra il 1865 e il 1869 sulla rivista Russkij Vestnik, riguarda principalmente la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, tra le guerre napoleoniche, la campagna napoleonica in Russia del 1812 e la fondazione delle prime società segrete russe. Per la precisione con cui i diversissimi piani del racconto si innestano all'interno del grande disegno monologico e filosofico dell'autore Lev Tolstoj, Guerra e pace potrebbe definirsi la più grande prova di epica moderna, e un vero e proprio «miracolo» espressivo e tecnico. Guerra e pace è considerato da molti critici un romanzo storico, in quanto offre un ampio affresco della nobiltà russa nel periodo napoleonico.

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— Molto gentile da parte vostra, signor Piero, d’esser venuto a trovare una povera ammalata, – gli disse Anna Scherer, presentandolo alla zia e scambiando con questa uno sguardo spaurito.

Piero brontolò una risposta confusa e continuò a girar gli occhi intorno, come se cercasse qualcuno o qualche cosa. Di botto sorrise, s’inchinò da lontano alla piccola principessa e si avvicinò alla zia. Non a torto Anna Scherer avea temuto, poichè Piero, senza aspettar la fine del discorso sulla salute di Sua Maestà, piantò in asso la vecchia.

— Non conoscete l’abate Morio? – gli domandò Anna Scherer, fermandolo. – È un uomo interessantissimo.

— Sì, ho sentito parlare del suo progetto di pace perpetua... Interessante, ma poco attuabile.

— Credete? – domandò Anna Scherer, tanto per dir qualche cosa; e subito volle tornare alle sue funzioni di padrona di casa. Ma Piero commise qui una seconda goffaggine. Prima, avea piantato a mezzo la sua interlocutrice; ora tratteneva quest’altra, cui premeva allontanarsi. Allargando le gambe, curvando la testa, prese a dimostrare per filo e per segno perchè proprio il progetto dell’abate gli paresse un’utopia.

— Avremo tempo a discorrerne, – lo interruppe sorridendo Anna Scherer.

E, lasciato lì il povero novizio, ignaro degli usi civili, tornò alle sue occupazioni, e prese ad osservare intorno e a porger l’orecchio, pronta a correre in aiuto del punto debole, dove la conversazione languisse. Come il direttore d’una filanda, collocati a posto i suoi operai, passeggia per l’opificio, nota l’immobilità o il soverchio stridere d’un fuso, e accorre con prontezza a metterlo in moto o ad arrestarlo; così Anna Scherer, aggirandosi nel suo salotto, si accostava ad un gruppo taciturno o troppo loquace, e con una parola o un semplice spostamento, rimetteva in moto regolare ed uniforme la macchina della conversazione. Ma, fra tante cure, trapelava sempre in lei la paura di Piero. Con lo sguardo ansioso lo vide avvicinarsi e prestare ascolto a quanto dicevasi nel capannello del visconte Mortemar, per poi passare all’altro dove arringava l’abate. Per Piero, educato all’estero, quella serata era la prima che vedesse in patria. Sapeva che qui raccoglievasi il fior fiore della intelligenza, e come ad un fanciullo in un magazzino di giocattoli, gli balenavano gli occhi. Temeva di lasciarsi sfuggire qualche luminoso brano di dialogo. Osservando le fisonomie gravi, convinte, degli eleganti personaggi qui convenuti, si aspettava a tutti i momenti qualche cosa di specialmente ingegnoso ed eccezionale. Si accostò finalmente a Mortemar. La conversazione gli sembrò interessante, epperò si fermò, aspettando il destro, come sogliono i giovani, di esprimere il proprio modo di vedere.

III

La serata oramai andava a tutta macchina. I fusi da tutte le parti giravano e cigolavano con moto uniforme. Oltre la zia, accanto alla quale sedeva una sola signora attempata e piagnona, alquanto estranea alla brillante brigata, la società erasi divisa in tre gruppi. Di uno, quasi tutto maschile, era centro l’abate; in un altro, giovanile, rifulgevano la bella principessa Elena, figlia del principe Basilio, e la piccola Bolconski, graziosa, rubiconda, e troppo pienotta per l’età sua. Del terzo erano anima Mortemar e Anna Scherer.

Il visconte Mortemar era un giovane di bell’aspetto, tratti delicati, modi gentili. Si reputava evidentemente una celebrità, ma, per benigna condiscendenza, adattavasi alla società in cui si trovava e consentiva che della sua compagnia si godesse. Anna Scherer lo imbandiva, per dir così, ai suoi ospiti, come un bravo cuoco offre sotto forma di prelibato manicaretto quel pezzo di carne che nessuno porterebbe alla bocca se lo si fosse visto nelle sudice manipolazioni culinarie. Anna Scherer serviva in tavola prima il visconte, poi l’abate, come cibi di qualità sopraffina. Nel gruppo di Mortemar venne subito in discorso l’uccisione del duca d’Enghien. Assicurava il visconte che il duca erasi perduto per magnanimità di carattere, e che l’irritazione di Bonaparte era stata originata da speciali motivi.

— Ah sì! raccontate, visconte, raccontate, – disse tutta lieta Anna Scherer, con l’intonazione che a tempo di Luigi XV si dava alla frase: Contez-nous cela, vicomte.

Il visconte s’inchinò sorridente in segno d’obbedienza. Anna Scherer gli fece circolo intorno e invitò tutti ad ascoltare il racconto.

— Il visconte ha conosciuto personalmente il povero duca, – bisbigliò ad uno Anna Scherer. – Il visconte è un narratore impareggiabile, – assicurò ad un altro. – Si vede subito l’uomo di buona società, – disse ad un terzo. E così il visconte fu servito ai commensali nella sua luce più favorevole, come un rosbiffe sopra un piatto ben caldo, asperso di spezie ed erbette.

Il visconte volea già incominciare il suo racconto, e atteggiava le labbra ad un fine sorriso.

— Venite qui, Elena cara, – disse Anna Scherer alla bella principessina, che un po’ più in là formava centro di un altro gruppo.

La principessina Elena si alzò con sulle labbra lo stesso inalterabile sorriso col quale era apparsa in salotto: sorriso consciente di suprema bellezza. Con un fruscio della bianca veste da ballo, ornata di edera, abbagliante per candore di spalle e per luccichio di capelli e di brillanti, passò fra gli uomini che le davano il passo; e senza guardar nessuno, ma a tutti concedendo di ammirare lo splendore del busto ricolmo superbamente, emergente dal basso scollo secondo la moda del tempo, si avvicinò ad Anna Scherer. Era così bella, che non solo non appariva in lei ombra di civetteria, ma pareva al contrario che le rimordesse il forte ed immancabile effetto di una grazia trionfatrice, che avrebbe voluto temperare, se le fosse stato possibile.

— Che bellezza! – si esclamava intorno.

Il visconte, quasi colpito da un improvviso bagliore, abbassò le palpebre, mentre Elena gli sedeva accanto gratificando anche lui del suo inalterabile sorriso.

— Davvero, – disse tra serio e gioviale, – ho paura di venir meno all’aspettazione, al cospetto di un pubblico simile.

La principessina appoggiò ad un tavolino il braccio nudo e tornito e non credette necessario rispondere. Sorrideva e aspettava.

Durante tutto il racconto, eretta sulla sua seggiola, ora dava un’occhiata al braccio i cui contorni eran rialzati dalla pressione del gomito, ora al seno stupendo sul quale andava aggiustando il vezzo di brillanti, ora rassettava le pieghe della gonna. Nei punti di maggiore effetto, sogguardava al Anna Scherer, e subito assumeva la stessa espressione di lei, tornando poi a sorridere come prima.

Anche la piccola principessa Bolconski, lasciata la tavola del tè, s’era unita al gruppo degli ascoltatori.

— Aspettate, – disse. – Prendo il mio lavoro. Ma che fate voi costì? a che pensate, principe Ippolito? Portatemi qui la mia sacchettina.

Ridendo, discorrendo un po’ con tutti, pigliando posto, arrestò per un momento l’inizio del racconto.

— Adesso sto benissimo, cominciate pure... Date qua, principe.

Il principe Ippolito le porse la sacchettina e le sedette accanto.

Era singolare la somiglianza del grazioso Ippolito con la sorella Elena, tanto più che egli era singolarmente brutto. I lineamenti del viso erano identici; se non che nella sorella sfolgoravano di vita e di classica bellezza, mentre in lui erano annebbiati da un idiotismo costante e da una sciatteria voluta e consciente. Gli occhi, il naso, la bocca, gli si torcevano in una smorfia di noia indefinita, le braccia e le gambe prendevano sempre posizioni goffe e poco naturali.

— Non si tratta mica di una storia di spiriti? – disse, mettendosi a sedere e inforcando le lenti, come se non potesse parlare senza l’aiuto di quell’istrumento.

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