— Sentite, principe, – disse. – Io non vi ho mai pregato, nè vi pregherò, non vi ho mai ricordato l’amicizia di mio padre per voi. Ma adesso, ve ne supplico in nome di Dio, fatelo per mio figlio, adoperatevi per lui, ed io vi sarò grata per tutta la vita. No, non andate in collera, promettetemelo. A Galizin mi son già rivolta, e ne ho avuto un rifiuto. Siate buono come una volta, – soggiunse, sforzandosi di sorridere, mentre le lagrime le venivano agli occhi.
— Papà, arriveremo in ritardo, – disse la figlia che aspettava verso la porta, voltando la bella testa sulle spalle scultorie.
Ma l’influenza è tal capitale nel mondo, che bisogna tener di conto se non si vuole che vada in fumo. Il principe Basilio lo sapeva, epperò ben di rado se ne giovava, pensando che a furia di sollecitare per gli altri, non avrebbe avuto più modo di sollecitar per conto proprio. Se non che, le ultime parole della Drubezkoi gli fecero sentire una certa punta di rimorso. Al padre di lei, senza dubbio, egli era obbligato dei primi passi nella sua carriera. Capiva inoltre esser lei una di quelle donne, specialmente madri, che una volta fittosi un chiodo nella testa, non desistono finchè non si vedono contentate; e nel caso opposto, son pronte ad ogni sorta d’insistenze e di persecuzioni assidue, quotidiane, e perfino a far delle scene. Quest’ultimo timore lo scosse.
— Cara signora, – disse col solito suo tono di familiarità annoiata, – per me, mi è quasi impossibile di fare quel che desiderate; ma per mostrarvi il mio buon volere e la memoria che serbo di vostro padre, metterò in opera ogni mezzo... Vostro figlio sarà destinato alla Guardia. Eccovi qua la mano. Siete contenta?
— Oh, voi siete il nostro benefattore! Non mi aspettavo di meno, sapevo e so quanta bontà è la vostra... Ma no, aspettate... Ancora due parole... Una volta destinato alla Guardia... voi siete in buoni rapporti con Kutusow... raccomandategli che prenda mio figlio per aiutante. Allora sarei tranquilla, e allora poi...
Il principe Basilio sorrise.
— Cotesto non ve lo prometto. Voi non sapete come sia assediato di domande quel povero Kutusow, dopo che gli han dato il comando in capo. Tutte le signore di Mosca, me l’ha detto egli stesso, hanno congiurato perchè i loro figli siano suoi aiutanti.
— No, promettete, datemi la vostra parola, non vi lascio andare, angelo mio protettore...
— Papà, faremo tardi, – tornò ad ammonire la figlia.
— Orsù, a rivederci, addio... Non vedete?
— Sicchè domani parlerete a Sua Maestà?
— Senza meno... Ma in quanto a Kutusow, non vi prometto.
— No, no, promettete, Basilio! – gli gridò dietro la Drubezkoi, con un sorriso civettuolo, che forse un tempo le era naturale, ma che stonava ora maledettamente su quel suo viso appassito. Avea dimenticato i suoi anni, e metteva in opera, senza pur saperlo, le antiche moine muliebri. Ma non appena il principe fu uscito, quel viso ridivenne freddo e inespressivo. Tornata in salotto, dove il visconte continuava a raccontare, ella fece le viste di ascoltare intenta, aspettando l’ora di battersela, visto che aveva ormai provveduto al fatto suo.
— Ma che ne dite dell’ultima commedia dell’incoronazione a Milano? – esclamò la Scherer. – Ed eccone un’altra: le popolazioni di Genova e Lucca espongono i loro voti al signor Buonaparte, e il signor Buonaparte, dall’alto del trono, dispensa ai popoli le sue grazie... Che spettacolo, eh?... c’è da ammattirne, parola d’onore. Si direbbe che il mondo intiero abbia perduto la testa.
Il principe Andrea le si volse ridendo.
— Dio me l’ha data; guai a chi la tocca , – disse. – Pare che fosse bellissimo nel pronunziare questa frase.
— E spero che sia stata questa la goccia che fa traboccare il vaso, – sospirò la Scherer. – I re non possono più sopportare quest’uomo spavaldo che tutti minaccia.
— I re! – venne su il visconte. – Non parlo già della Russia... Ma che fecero i re per Luigi XVI, per la regina, per Elisabetta? Niente, proprio un bel niente. E, credete a me, pagheranno caro il tradimento alla causa dei Borboni. I re! Non fanno ora che mandare ambasciadori per rendere omaggio all’usurpatore di un trono.
Trasse, così dicendo, un sospiro di profondo disprezzo, e tornò a mutare atteggiamento. Il principe Ippolito, che lo avea fissato a lungo attraverso le lenti, udendo quelle parole, si voltò con tutto il corpo verso la piccola principessa, e fattosi dar l’ago, prese con la punta di esso a disegnar sulla tavola lo stemma dei Condé. Poi gliel’andò spiegando per filo e per segno e con una cera così grave, come se da lei ne fosse stato pregato.
— Palo spinato d’argento in campo azzurro.
La principessa ascoltava sorridendo.
— Se Buonaparte rimane ancora un anno sul trono di Francia, – proseguì il visconte col fare di chi non dà retta agli altri ma segue il corso dei propri pensieri in una faccenda meglio che a tutti a lui nota, – le cose andranno lontano. Con l’intrigo, la violenza, le proscrizioni, le condanne, la società francese, intendo dire la buona, sarà bell’e distrutta, e allora...
Qui crollò le spalle e allargò le braccia. Piero stava per dir qualche cosa, ma la Scherer lo prevenne in tempo.
— L’imperatore Alessandro, – disse con l’intonazione malinconica che accompagnava tutti i suoi discorsi sulla famiglia imperiale, – ha dichiarato che avrebbe lasciato agli stessi Francesi piena libertà di scegliersi un governo. Ed io son sicurissima che tutta la nazione, una volta sbarazzatasi dell’usurpatore, si getterà fra le braccia del legittimo re.
— La cosa è un po dubbia, – intervenne qui il principe Andrea. – Il visconte ha colto nel segno, pronosticando che si andrà lontano. Io credo assai difficile un qualunque ritorno al passato.
— A quanto ho sentito, – osservò Piero, facendosi rosso, – quasi tutta l’aristocrazia è passata a Bonaparte.
— Sono i bonapartisti che lo dicono, – ribattè il visconte, senza voltarsi. – Ora come ora, non è facile sapere quale sia in Francia la pubblica opinione.
— Coteste son parole di Bonaparte, – disse in tono beffardo il principe Andrea, al quale, evidentemente, non era simpatico il visconte. – Io ho mostrato loro la via della gloria, e non ne vollero sapere; ho spalancato loro le mie anticamere, e li ho visti precipitarvisi in folla... Non so davvero fino a che punto avesse diritto Bonaparte di parlar così.
— Nessunissimo diritto! – protestò il visconte. – Dopo l’assassinio del duca, anche i più caldi suoi partigiani non lo stimano più un eroe. E se tale fu per alcuni, certo è che dopo lo spargimento di quel sangue, il cielo conta un martire di più, e la terra un eroe di meno.
— La morte del duca d’Enghien, – proruppe Piero, prima che la Scherer riuscisse ad arrestarlo, – fu una necessità politica; e Napoleone mostrò vera grandezza d’animo, quando non temette di assumerne da solo la responsabilità.
— Dio! Dio mio! – esclamò a mezza voce Anna Scherer.
— Voi approvate l’assassinio? Come, signor Piero, voi trovate che nell’assassinio ci sia grandezza d’animo? – disse sorridendo la piccola principessa e accostando a sè il lavoro.
— Ah! oh! – si udirono varie esclamazioni.
— Bravissimo! capital! – approvò in inglese il principe Ippolito, battendosi sul ginocchio.
Il visconte si limitò ad una scrollatina di spalle.
Piero guardò trionfalmente di sopra gli occhiali agli astanti stupefatti.
— Dico così, – proseguì con calore, – perchè i Borboni fuggirono la rivoluzione, abbandonando il popolo all’anarchia. Solo Napoleone seppe capire la rivoluzione e dominarla; epperò non poteva, per il bene comune, per la salute di tutti, arrestarsi davanti alla vita di un solo.
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