Lev Tolstoj - Guerra e pace. Ediz. integrale

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Scritto tra il 1863 e il 1869 e pubblicato per la prima volta tra il 1865 e il 1869 sulla rivista Russkij Vestnik, riguarda principalmente la storia di due famiglie, i Bolkonskij e i Rostov, tra le guerre napoleoniche, la campagna napoleonica in Russia del 1812 e la fondazione delle prime società segrete russe. Per la precisione con cui i diversissimi piani del racconto si innestano all'interno del grande disegno monologico e filosofico dell'autore Lev Tolstoj, Guerra e pace potrebbe definirsi la più grande prova di epica moderna, e un vero e proprio «miracolo» espressivo e tecnico. Guerra e pace è considerato da molti critici un romanzo storico, in quanto offre un ampio affresco della nobiltà russa nel periodo napoleonico.

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— Che fare, amico mio! le donne, le donne!

— Non capisco. Le donne per bene, sia pure... Ma le donne sullo stampo della Kuraghin, le donne ed il vino, non mi vanno, no.

Piero viveva in casa del principe Basilio Kuraghin, e partecipava alla vita dissipata del figlio Anatolio, quel medesimo cui si volea dare in moglie, per correggerlo, la sorella del principe Andrea.

— Sapete che... – disse Piero ad un tratto, come colpito da una bella idea; – da un pezzo, parola d’onore, ci pensavo anch’io? Menando una vita simile, non mi riuscirà mai di prendere un partito. Mal di capo e mancanza di danari... Anche per questa sera m’ha invitato, ma non ci andrò.

— Dammi la parola d’onore che non ci andrai.

— Parola d’onore!

***

Era passata l’una del mattino, quando Piero lasciò l’amico. Era una notte di Giugno, limpida, quasi luminosa, come se ne danno a Pietroburgo. Piero montò in una vettura di piazza con l’intenzione di andare a casa. Ma più andava, più sentiva l’impossibilità di prender sonno in una notte come quella, che somigliava un’alba o un tramonto. Per le vie deserte, si vedeva lontano. Da Anatolio Kuraghin – si ricordò Piero – si sarebbero riuniti i soliti buontemponi, per giocare, gozzovigliare e chiuder poi il trattenimento con uno degli spassi che a Piero piaceva sopra ogni cosa.

— Se ci andassi? – pensò Piero con una punta di desiderio; ma subito gli sovvenne della parola data.

Ma nel punto stesso, come suole nelle persone senza carattere, una gran voglia lo prese di godersi ancora una volta un po’ di quella vita sbrigliata. Sì, avea dato la parola al principe Andrea, ma l’avea data prima anche ad Anatolio... E che è, in fondo, una parola d’onore? Un convenzionalismo come un altro, un’espressione vuota di senso; oggi si vive, domani si può morire, o anche può succedere un caso impensato, straordinario, e allora addio onore o disonore. Questi singolari sillogismi, che fiaccavano sul più bello ogni suo proposito, non di rado lo assalivano.

La conclusione fu che andò da Kuraghin.

Arrivato al palazzo di Anatolio, presso la caserma di cavalleria, montò le scale illuminate ed entrò per la porta che era aperta. In anticamera non c’era anima viva; qua e là, per terra e sui mobili, bottiglie, mantelli, galosce; l’aria era pregna di esalazioni spiritose; dall’interno, vocio, risa, grida.

Il giuoco era finito, e così pure la cena, ma la brigata non s’era sciolta. Piero si sbarazzò del mantello ed entrò nella prima camera, dove trovò gli avanzi della cena e un cameriere che ingollava, inosservato, i fondi dei bicchieri. Dalla camera contigua giungevano suoni di note voci, sghignazzate, urli incomposti e il mugolio rauco di un orso. Otto giovani si accalcavano davanti una finestra spalancata. Tre si arrabbattavano con un orsacchiotto, uno tirandolo per la catena ed aizzandolo contro i compagni.

— Cento rubli per Stievens! – gridò uno.

— Bada però di non tenerlo per le spalle! – gridò un altro.

— Io scommetto per Dolochow! – gridò un terzo. – A te, Kuraghin, fissa tu le condizioni.

— Orsù, lasciate in pace l’orso; qui si tratta d’una scommessa.

— D’un sol fiato, se no la scommessa è perduta, – protestò un quarto.

— Giacomo, qua una bottiglia! – comandò il padrone di casa, un bel giovane alto, in maniche di camicia e con lo sparato aperto sul petto. – Un momento, signori. Ecco qua Pierino, quel caro compagnone.

Un giovane di bassa statura, dagli occhi cilestri, dalla voce temperata che stranamente contrastava con le altre voci avvinazzate, chiamò dalla finestra:

— Vieni qua, Piero. Decidi tu la scommessa!

Era Dolochow, un ufficiale del reggimento Semenovski, famoso giocatore e spadaccino, che abitava con Anatolio.

Piero sorrise, guardandosi intorno.

— Non capisco niente. Di che si tratta?

— Aspettate, – intervenne Anatolio, – Piero non è ubbriaco. Qua una bottiglia e un bicchiere... To’, prima di tutto, ingolla!

Piero si diè a tracannare un bicchiere dopo l’altro, seguitando ad osservare e ascoltare. Anatolio, mescendogli il vino, gli spiegò che Dolochow avea scommesso contro Stievens, ufficiale inglese di marina, di bere una bottiglia di rum, stando a sedere sulla finestra del terzo piano, con le gambe penzoloni di fuori.

— Su, bevi tutto! – disse Anatolio, porgendo a Piero l’ultimo bicchiere; — se no, non ti lascio andare.

— No, basta, – rispose Piero, e scostato Anatolio, andò verso la finestra.

Dolochow teneva per mano l’inglese, e con voce chiara, spiccata, ripeteva le condizioni della scommessa, indirizzandosi specialmente ad Anatolio e Piero. Era un uomo di mezzana statura, dai capelli ricciuti, dagli occhi azzurri. Avea venticinque anni. Come tutti gli ufficiali di fanteria non portava baffi, sicchè tutta la bocca, che costituiva il suo tratto caratteristico, era visibile. Labbra fini dalle curve delicate; il labbro superiore sporgeva alquanto sull’inferiore; di qua e di là, agli angoli, si disegnavano come due sorrisi. Tutto ciò, insieme con lo sguardo fermo, sfrontato, intelligente, faceva tale impressione che era impossibile non accorgersi di lui. Non era ricco nè avea relazioni. Eppure viveva con Anatolio, il quale buttava via decine di migliaia, e più di Anatolio era riuscito a guadagnarsi la stima e il rispetto degli altri. Giocava a tutti i giuochi, e quasi sempre vinceva. Per molto che bevesse, non perdeva mai la testa. Kuraghin e Dolochow erano, a quel tempo, due celebrità nel mondo dei rompicolli della capitale.

Fu portata la bottiglia di rum. Due servi, evidentemente intontiti dai consigli e dalle grida dei signori, si arrovellavano a rompere il telaio che impediva di spenzolar le gambe fuori della finestra.

Anatolio imperiosamente si fece largo. Sentiva il bisogno di rompere qualche cosa. Scostò con uno spintone i servi, diè una violenta strappata al telaio, ma non riuscì che a fracassare un vetro.

— Ebbene, a te, atleta! – si volse egli a Piero.

Questi afferrò con ambo le mani il telaio di quercia e lo sconficcò con fracasso.

— Tutto, fino all’ultima sverza, se no crederanno che io mi vi aggrappi, – disse Dolochow.

— L’inglese fa il millantatore; eh?... Bravo, la vedremo! – gridò Anatolio.

— Sta bene, – disse Piero, seguendo con gli occhi Dolochow, il quale con in mano la bottiglia del rum, si avvicinava alla finestra. La prima luce dell’alba biancheggiava in cielo.

— Sentite! – gridò Dolochow, ritto sul davanzale e volto verso la camera. Tutti fecero silenzio.

— Io scommetto cinquecento rubli... Volete portarli a mille? – e si volgeva all’inglese.

— No, cinquecento, – questi rispose.

— E sia... scommetto che tracannerò una intiera bottiglia di rum, senza staccarla dalla bocca, e seduto qui sulla finestra, senza tenermi ad alcun sostegno. Va bene?

— Benissimo, – approvò l’inglese.

Anatolio gli andò vicino, lo afferrò per un bottone del soprabito, e guardandolo dall’alto in basso (l’inglese era bassino), gli ripetette in inglese le condizioni della scommessa.

— Un momento! – tornò a gridare Dolochow battendo della bottiglia sul davanzale per attirar l’attenzione. – Un momento, Kuraghin... Sentite: se qualcuno di voi fa lo stesso che faccio io, gli pago mille rubli. Capite?

L’inglese chinò il capo, senza far capire se accettava o no questa nuova scommessa... Anatolio non lo lasciava andare e seguitava a tradurgli in inglese le parole di Dolochow, checchè quegli facesse segno di non averne bisogno. Un giovanetto magro, ussaro della Guardia, che avea perduto al giuoco l’osso del collo, saltò sulla finestra, si sporse in fuori e guardò di sotto, sulle lastre del marciapiedi.

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