Robert Jordan - Il Drago Rinato
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Davanti a Callandor c’era Joiya Byir, sagoma così incorporea che la luce della spada brillava attraverso di lei. Ora la spada di cristallo non si limitava a scintillare di luce riflessa: ardeva e pulsava, come se una luce interna venisse scoperta e ricoperta. Joiya Byir sobbalzò di sorpresa e si girò a fronteggiare Egwene. «Com’è possibile?» esclamò. «Sei schermata! Hai terminato di Sognare!»
Ancora prima che lei parlasse, Egwene abbracciò di nuovo Saidar , intessé un complicato flusso di Spirito , ricordando come l’avevano usato contro di lei, e schermò dalla Fonte la Sorella Nera. Joiya sbarrò gli occhi, quegli occhi crudeli così incongrui nel viso bello e gentile; ma Egwene già intesseva Aria. L’altra pareva fatta di nebbia, ma il legame la tratteneva. Egwene ebbe l’impressione di non fare il minimo sforzo per manipolare nella tessitura i due flussi. Sulla fronte di Joiya Byir brillarono goccioline di sudore.
«Hai un ter’angreal !» esclamò la Nera: mostrava chiaramente in viso la paura, ma cercava di nasconderla nella voce. «Non può essere altro. Un ter’angreal che ci è sfuggito e che non richiede il Potere. Pensi che ti gioverà, bambina? Qualsiasi cosa tu faccia qui, non tocca ciò che accade nel mondo reale. Il Tel’aran’rhiod è un sogno! Quando mi sveglierò, verrò io stessa a toglierti il ter’angreal. Attenta a ciò che fai! Non darmi motivo d’essere furiosa, quando verrò nella tua cella.»
Egwene le sorrise. «Sei sicura di svegliarti, Amica delle Tenebre? Se il tuo ter’angreal richiede il Potere, perché non ti sei svegliata, appena ti ho schermato dalla Fonte? Forse non potrai svegliarti, finché sarai schermata qui.» Tornò seria: lo sforzo di sorridere a quella donna era più di quanto potesse sopportare. «Una volta una donna mi mostrò la cicatrice ricevuta nel Tel’aran’rhiod , Amica delle Tenebre. Ciò che accade qui è ancora reale, quando ti svegli.»
Ora il sudore ruscellava sul viso liscio e privo d’età di Joiya Byir. Egwene si domandò se pensasse d’essere sul punto di morire. Quasi rimpianse di non avere la crudeltà necessaria a ucciderla. La maggior parte dei colpi ricevuti proveniva da quella donna; come la scarica di pugni che aveva subito solo perché aveva cercato di strisciare via, solo perché si era rifiutata di cedere.
«Una donna che può dare simili legnate» disse «non dovrebbe sollevare obiezioni per una battuta meno forte.» Rapidamente intessé un altro flusso di Aria. Per l’incredulità, gli occhi scuri di Joiya Byir parvero schizzare dalle orbite, appena la Nera ricevette il primo pugno alle reni. «Questo lo ricorderai, e lo sentirai, al risveglio» proseguì Egwene. «Se ti permetterò di svegliarti. Ricorda anche un’altra cosa: se cercherai di nuovo di picchiarmi, ti riporterò qui e ti ci lascerò per il resto della tua vita!» La sorella Nera la fissò con odio, ma negli occhi aveva anche un accenno di lacrime.
Egwene provò un istante di vergogna. Non per ciò che faceva a Joiya (la donna meritava ogni colpo, se non per ripicca, almeno per le morti nella Torre) ma per avere perduto tempo a vendicarsi, mentre Nynaeve e Elayne erano in cella, con la speranza che lei riuscisse a liberarle.
Annodò e troncò i flussi della tessitura, quasi senza rendersene conto; poi si soffermò a studiare che cosa aveva fatto. Non solo aveva manipolato contemporaneamente e senza difficoltà tre tessiture separate, ma ora le aveva anche rese stabili nel tempo. Credette di ricordare anche come aveva fatto. Le sarebbe stato utile.
Dopo un momento sciolse una tessitura e l’Amica delle Tenebre singhiozzò, di sollievo e di dolore. «Non sono come te» disse Egwene. «Questa è la seconda volta che faccio una cosa del genere e non mi piace. Dovrò imparare invece a tagliare la gola alla gente.»
A giudicare dallo sguardo, Joiya Byir pensò che Egwene intendesse cominciare da lei.
Con una smorfia di disgusto, Egwene la lasciò lì, imprigionata e schermata, e s’inoltrò frettolosamente nella foresta di levigate colonne di granito. Da qualche parte c’era di sicuro una via per scendere alle celle.
Nel corridoio di pietra scese il silenzio: Giovane Toro aveva serrato le fauci intorno alla gola del due-gambe e aveva troncato il suo ultimo grido d’agonia. E aveva sentito sulla lingua il gusto amarognolo del sangue.
Sapeva di trovarsi nella Pietra di Tear, anche se ignorava come facesse a saperlo. Mentre lottavano, i due-gambe intorno a lui, uno dei quali tirava gli ultimi calci, con le zanne di Hopper conficcate nella gola, avevano mandato il puzzo acre della paura. Erano sembrati confusi. Secondo lui, non sapevano dove si trovassero (di sicuro non appartenevano al sogno dei lupi) ma erano decisi a tenerlo lontano dall’alta porta più avanti, col suo catenaccio di ferro. A proteggerla, almeno. Erano parsi sorpresi nel vedere dei lupi. E anche di trovarsi lì.
Giovane Toro si pulì la bocca e si fissò la mano, senza capire. Era di nuovo uomo. Era Perrin. Era tornato nel proprio corpo, nella veste da fabbro; aveva alla cintola il pesante martello.
«Dobbiamo affrettarci, Giovane Toro. Nelle vicinanze c’è il male.»
Perrin staccò dalla cintura il martello e colpì la porta. «Faile dev’essere qui» disse. Con un colpo secco fracassò il catenaccio. Con un calcio spalancò la porta.
Nella stanza c’era soltanto un lungo blocco di pietra al centro del pavimento. Faile giaceva su quel blocco, come addormentata, i capelli neri allargati a ventaglio, il corpo così avvolto in catene che Perrin impiegò un attimo a capire che la donna era nuda. Ogni catena era fissata alla pietra mediante un grosso anello.
Perrin quasi non si accorse d’essere entrato nella stanza, finché non toccò il viso di Faile, seguendone col dito il contorno dello zigomo.
Lei aprì gli occhi e gli sorrise. «Continuavo a sognare che saresti venuto, fabbro.»
«Ti libero in un momento, Faile.» Alzò il martello e fracassò un anello come se fosse di legno.
«Ne ero sicura. Perrin.»
Mentre il nome svaniva, anche Faile svanì. Con rumore di ferraglia le catene ricaddero sulla pietra dove lei era distesa.
«No!» gridò Perrin. «L’ho trovata!»
«Il sogno non è come il mondo di carne, Giovane Toro. Qui la stessa caccia può avere molte conclusioni.»
Perrin non si girò a guardare Hopper. Aveva snudato i denti in un ringhio. Alzò di nuovo il martello, lo calò con tutte le sue forze sulle catene che avevano imprigionato Faile. Il blocco si crepò in due; la Pietra stessa rintoccò come campana.
«Allora andrò di nuovo a caccia» ringhiò Perrin.
Martello in mano, uscì dalla stanza, con Hopper a fianco. La Pietra era un luogo di uomini: e gli uomini, lo sapeva, sono cacciatori più crudeli perfino dei lupi.
Da qualche parte, più in alto, i gong d’allarme mandarono sonori rintocchi lungo il corridoio, senza soffocare del tutto il clangore di metallo contro metallo e le grida di uomini che combattevano non molto lontano. Aiel e Difensori, sospettò Mat. Alti portalampade d’oro, ciascuno con quattro lanterne, fiancheggiavano il corridoio e arazzi di seta con scene di guerra erano appesi alle levigate pareti di pietra. Per terra c’erano tappeti di seta, rosso scuro su blu scuro, col disegno del labirinto tairenese. Una volta tanto, Mat era troppo preso per dare un prezzo a ogni arredo.
"Questo maledetto è abile” pensò, deviando una puntonata di spada; ma fu costretto a cambiare in parata il colpo che con l’altra estremità del bastone voleva indirizzare contro la testa dell’avversario. “Non sarà uno di quei maledetti Sommi Signori?" Riuscì quasi a centrarlo al ginocchio, ma l’uomo balzò indietro e alzò in posizione di guardia la spada a lama dritta.
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