Salirono per il pendio abbandonato che era stato invaso dalle rocce. Camminarono tra le rocce, sotto il sole caldo, fino all’apertura sul fianco della montagna. C’era un cancello di legno, scolorito e vecchio ma in buone condizioni, e un cartello sul quale c’erano queste parole: PERICOLO — GALLERIA MINERARIA NON SICURA — CADUTA MASSI — TENERSI LONTANI.
Il cancello era chiuso. Sherman lo aprì, ed entrarono, e subito dopo il cancello venne richiuso.
«Serve a tenere fuori i bambini,» disse. «Sono gli unici di cui dobbiamo preoccuparci.»
Dentro la galleria, per quanto lasciava scorgere la luce del sole, c’era una massa di rocce franate sul pavimento, e un’aria pericolante nelle pareti e nella volta, e l’aspetto generale era di completo abbandono. Le assi di sostegno erano marcite e rotte, e qualche puntello della volta pendeva spezzato. Non era un posto che invitasse a entrare. Sherman spiegò che tutte le miniere avevano delle gallerie abbandonate, e che nessuno vedeva niente di strano in una faccenda normalissima.
«Questa galleria, naturalmente, è perfettamente sicura. Ma la messa in scena è convincente.»
«Troppo convincente,» disse Gutierrez, incespicando. «Un giorno o l’altro mi romperò una gamba.»
La luce cominciò a stemperarsi nell’oscurità, e la galleria girò verso sinistra. Improvvisamente, senza alcun preavviso, un’altra luce si accese davanti a loro. Era bluastra e molto brillante, dissimile da qualsiasi altra luce che Len avesse mai visto, e in quel momento, per la prima volta dal suo arrivo a Fall Creek, l’eccitazione ritornò ad agitarsi dentro di lui, quell’eccitazione di cui solo pochi istanti prima si era ritenuto incapace. Sentì che Esaù tratteneva il respiro, e diceva, ’Elettricità!’, e quella magica parola parve riecheggiare nell’antica volta. Ora la galleria era liscia e diritta e agevole; nessun ostacolo ingombrava la strada. Avanzarono rapidamente, e oltre la luce Len vide una porta.
Si fermarono davanti a essa. La luce era sopra di loro, adesso. Len cercò di guardarla direttamente, e fu costretto a battere le palpebre, come di fronte alla luce del sole.
«Non è splendido?» bisbigliò Esaù. «È proprio come ci diceva la nonna, non è vero?»
«Ci sono degli scrutatori, anche qui,» disse Sherman. «Aspettate un secondo. Ecco fatto. Possiamo andare, adesso.»
La porta si aprì. Era spessa e fatta di metallo, incastonata solidamente nella roccia viva. Ne varcarono la soglia, e la porta si chiuse silenziosamente alle loro spalle, e furono a Bartorstown.
Si trovavano ancora nella continuazione della galleria, ma la roccia era lavorata alla perfezione, lucida e liscia, e c’erano luci, sistemate a intervalli regolari nella volta, apparentemente incastonate anch’esse nella roccia. L’aria aveva un odore particolare, freddo e metallico. Len la sentiva sfiorare il suo viso, e c’era un fruscio sommesso, insistente, che pareva appartenere all’aria stessa. Ora i suoi nervi erano contratti, e il viso si era imperlato di sudore. Ebbe una visione rapida e paurosa della montagna vista dall’esterno, e pensò che quella montagna era adesso su di lui, e gli parve di sentire quel peso enorme premere sul suo corpo e sul suo spirito.
«È tutto così?» domandò. «Voglio dire, è tutto sotterraneo?»
Sherman annuì.
«A quei tempi, costruivano molte cose sottoterra. Il sottosuolo era più sicuro di una superficie aperta, e il cuore di una montagna costituiva la maggior sicurezza possibile.»
Esaù stava osservando il corridoio. Gli pareva lunghissimo, pareva stendersi all’infinito.
«È molto grande?»
Fu Gutierrez a rispondere, questa volta.
«Cosa vuole dire, grande? Se considerate Bartorstown da un certo punto di vista, si tratta della cosa più grande esistente al mondo. È tutto il passato, e tutto il futuro. Se la considerate da un altro punto di vista, è solo un buco nella terra, grande appena per seppellirci un uomo.»
Circa sei metri dopo, un uomo uscì da una porta nella roccia, e venne incontro a loro. Era giovane, aveva circa l’età di Esaù. Si rivolse a Sherman e agli altri, salutandoli con franco rispetto, e poi studiò apertamente i Colter, senza nascondere la propria curiosità.
«Salve,» disse. «Vi ho visti mentre attraversavate il passo inferiore. Io mi chiamo Jones.» Tese la mano.
Si scambiarono le rituali strette di mano, e poi tutti si avvicinarono alla porta. Al di là di essa c’era una stanza spaziosa, scavata nella roccia, piena di un’incredibile quantità di oggetti, pannelli, fili, manopole, pulsanti, e aggeggi simili all’interno di una radio. Esaù si guardò intorno, e poi fissò con evidente rispetto Jones.
«Siete voi quello che preme il bottone?»
Rimasero tutti perplessi, a quelle parole, e poi, improvvisamente, Hostetter scoppiò in una fragorosa risata.
«Wepplo si è divertito a spaventarli!» disse. «No, Jones avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione più in alto.»
«In realtà,» disse Sherman, che aveva capito il significato delle parole di Esaù, «Non abbiamo mai premuto quel bottone, almeno fino a questo momento. Ma teniamo il meccanismo in perfetto ordine di funzionamento, in caso di necessità. Una precauzione elementare. Ma venite qui.»
Con un breve cenno, indicò loro di seguirlo, ed essi obbedirono, con la vigile tensione di uomini o di animali che si trovano in un luogo strano e ignoto, e pensano di dover essere costretti, forse, a scappare in fretta per salvarsi. Fecero molta attenzione a non toccare niente. Jones li precedette, e cominciò, con noncurante disinvoltura, a fare qualcosa, armeggiando intorno alle manopole e agli interruttori. Non aveva affatto un atteggiamento d’importanza, pareva intento a fare qualcosa per lui straordinariamente naturale. Sherman indicò una finestrella quadrata di vetro, e Len la fissò per diversi secondi prima di rendersi conto che non poteva essere una finestra, e che se lo fosse stata non avrebbe potuto guardare direttamente sul passo che stava dall’altra parte del contrafforte roccioso.
«Gli scrutatori raccolgono le immagini, e le ritrasmettono a questo schermo,» disse Sherman.
Prima che Sherman avesse potuto proseguire, dando ulteriori spiegazioni, Esaù esclamò, con il tono di un bambino che incontra una bellissima sorpresa:
«La tivù!»
«Sì, si basa sullo stesso principio,» disse Sherman. «Dove ne avete sentito parlare?»
«Da nostra nonna. Lei ci raccontava tantissime cose.»
«Oh, sì. Ne avete parlato, ricordo… è stata lei a parlarvi di Bartorstown.» Gentilmente, ma con incrollabile fermezza, attirò di nuovo la loro attenzione sullo schermo. «C’è sempre qualcuno di guardia, qui, intento a osservare. Nessuno può attraversare quel passo senza essere visto… e, allo stesso modo, nessuno può entrare, e nessuno può uscire. »
La sua voce aveva sottolineato quelle ultime parole: non aveva cambiato tono, ma era impossibile evitare di cogliere il significato.
«E durante la notte?» domandò Len. Supponeva che Sherman avesse tutti i diritti di ricordare continuamente il suo ammonimento, e la loro situazione; ciononostante la cosa lo offendeva un poco.
Sherman lo fissò con uno sguardo freddo e penetrante.
«La vostra nonna vi ha detto nulla a proposito degli occhi elettronici?»
«No.»
«Possono vedere anche al buio. Fategli vedere come, Jones.»
Il giovane mostrò loro un pannello, irto di piccoli bulbi di vetro, disposti su due file opposte.
«Questo è come il passo inferiore, vedete? E queste lampadine, sono le coppie di occhi elettronici. Quando camminate tra i due punti, che sono uniti da una linea invisibile, voi spezzate questa linea, e le lampadine si accendono. Così sappiamo esattamente dove siete.»
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