Se Esaù aveva compreso lo scambio di velate allusioni, non lo dimostrò. Stava fissando con occhi grandi, lucidi e invidiosi la figura di Jones, e improvvisamente domandò:
«Potrei imparare anch’io a fare queste cose?»
«Non vedo perché non dovreste,» rispose Sherman. «Naturalmente, se avete voglia di studiare.»
Esaù respirò più forte, e sorrise.
Uscirono dalla stanza e si ritrovarono nel corridoio, sotto le luci brillanti. C’erano delle altre porte, contraddistinte da numeri, e Sherman disse che si trattava di depositi. Poi il corridoio si divise in due rami. Len era confuso, ora, perché l’orientamento era difficile in quel mondo sotterraneo, ma gli altri imboccarono il corridoio di destra, che si allargava in una vertiginosa serie di stanze scavate nella roccia, con grandi colonne disposte in file ordinate per sorreggere il peso della volta. Le stanze erano separate l’una dall’altra, ma intercomunicanti, come i segmenti di una ruota, e alle pareti esterne parevano esserci delle aperture che immettevano in camere più piccole. Erano piene di oggetti, e Len, dopo pochi minuti, rinunciò a capire quello che vedeva, perché ci sarebbero voluti anni e anni di studi per permettergli di comprendere. Si limitò a guardare, e a immergersi nella strana atmosfera di quel luogo, e cercò di accettare quella che era la realtà: il fatto che lui fosse entrato in un altro mondo, in un mondo completamente dissimile da quello che aveva conosciuto.
E la collera gli pareva futile, adesso, e infantile. Quella era Bartorstown. Ed era fuori del mondo.
Sherman stava parlando. A volte anche Gutierrez, e perfino Erdmann, si inserivano nelle conversazioni. Anche gli altri uomini pronunciavano qualche parola. Solo Hostetter taceva.
Spiegarono che Bartorstown era stata costruita per essere del tutto autosufficiente, per lo meno entro i limiti in cui poteva esserlo un luogo simile. Era in grado di provvedere alle necessarie riparazioni, e di produrre nuove parti, e c’erano ancora delle riserve dei materiali che erano stati forniti a quello scopo ai tempi della costruzione. Sherman mostrò le diverse stanze, il laboratorio di elettronica, l’officina di manutenzione elettrica, il reparto radio, stanze piene di strani macchinari e di strane, fantasmagoriche, scintillanti sagome di vetro e metallo, e pannelli senza fine, irti di lancette e di quadranti e di luci ammiccanti. A volte ancora non c’era nessuno, solo una quiete vuota, con il fruscio sommesso dell’aria che rendeva quei luoghi ancora più silenziosi e solitari. Sherman parlò di condotti di ventilazione, e di pompe, e di depuratori. ’Automatico’ era la parola che egli usava più di tutte le altre, ed era una parola strana e prodigiosa. Le porte si aprivano automaticamente, quando si arrivava davanti a esse, e le luci si accendevano e si spegnevano senza bisogno di muovere un dito.
«Automatico, tutto automatico,» disse Hostetter, uscendo dal suo silenzio, sbuffando, con disprezzo. «E ci meravigliamo che i Mennoniti abbiano ottenuto un potere così grande nel paese! La gente comune era così viziata dall’automazione, che non sapeva neppure allacciarsi le stringhe delle scarpe, senza una macchina che l’aiutasse.»
«Ed,» disse Sherman, quietamente. «Non saresti un buon agente pubblicitario per Bartorstown;»
«Chissà,» disse Hostetter. «Sembra però che sia stato abbastanza efficace, almeno per qualcuno.»
Len lo fissò. Ormai aveva imparato a conoscere bene Hostetter, e capiva che era preoccupato e nervoso e a disagio. Len avvertì un brivido freddo lungo la schiena, e si volse di nuovo a guardare tutte le strane cose che lo circondavano. Erano meravigliose, e affascinanti, e non volevano dire niente, se qualcuno non diceva prima quale scopo avevano. E nessuno aveva detto niente.
Lo disse ad alta voce, e Sherman annuì.
«Uno scopo esiste. Tutte queste cose hanno uno scopo. Volevo che prima vedeste tutta Bartorstown, e non solo una piccola parte di essa, per comprendere quanto fosse importante il suo scopo, almeno per il governo di questo paese, ancora prima della Distruzione. Così importante da indurre il governo a provvedere affinché Bartorstown potesse sopravvivere, anche se tutto il resto fosse andato distrutto, come infatti è accaduto. Ora vi farò vedere un’altra parte delle installazioni; la centrale di energia.»
Hostetter aprì la bocca, per parlare, e Sherman disse, con calma:
«Faremo a modo mio, Ed.» Li condusse ancora lungo il corridoio centrale, che Len aveva paragonato al mozzo della ruota, e guardando di sbieco Len ed Esaù, disse, «Ci serviremo della scala, invece che dell’ascensore.»
Per tutta la discesa lungo la scala di metallo, che riecheggiava cupamente sotto i loro passi, Len cercò di ricordare che cosa fosse un ascensore, un nome che aveva già sentito menzionare dalla nonna, ma non vi riuscì. Poi si fermò con gli altri a un nuovo piano, e si guardò intorno.
Si trovavano in un’immensa caverna, che rimandava l’eco di una possente e profonda vibrazione, mescolata con altri suoni sconosciuti alle orecchie di Len, ma che, mescolati gli uni con gli altri, parlavano con una voce inconfondibile, che diceva una parola che nessuno aveva pronunciato davanti a lui in passato, all’infuori delle voci naturali del vento e del tuono e dell’inondazione. La parola era energia. Pura energia della natura, della materia, degli elementi. La volta era stata lasciata più grezza, in quella caverna immane, e tutto lo spazio era inondato da una luce bianca, liquida e incandescente, e in quella luce si ergevano massicce molte possenti strutture tozze, bulbose, gigantesche, vicino alle quali gli uomini che lavoravano sembravano dei nani. La carne di Len avvertiva quel pulsare e quel vibrare dell’aria e della roccia, e le sue narici si contrassero, per uno strano sentore che pervadeva l’aria.
«Questi sono i trasformatori,» disse Sherman. «Vedete i cavi… scorrono in condotti nascosti, e portano l’energia a tutta Bartorstown. Questi sono i generatori, e queste le turbine…»
«…l’impianto a vapore…»
Ecco, quello era comprensibile. Enormemente più grande di qualsiasi altra cosa avessero sognato, ma era a vapore, e il vapore lo riconoscevano, era un vecchio amico tra quei giganti stranieri. Indugiarono, quasi aggrappandosi a esso, all’unica cosa familiare, facendo dei confronti, e uno dei due uomini dei quali Len non aveva capito bene il nome spiegò pazientemente tutte le differenze di modello e di funzionamento.
«Ma non c’è la caldaia,» disse Esaù. «Non c’è fuoco, né combustibile. Da dove viene il calore?»
«Di là,» disse l’uomo, e puntò il braccio. L’impianto a vapore si stendeva fino a una massa di cemento, alta, lunga e massiccia. «Quello è il commutatore di calore.»
Esaù osservò il cemento, accigliato.
«Non vedo…»
«È tutto schermato, naturalmente. È caldo.»
«Caldo,» disse Esaù. «Be’, certo, deve essere caldo, per far bollire l’acqua. Ma ancora non capisco…» Si guardò intorno, cercando qualcosa nei recessi della grande caverna. «Ancora non riesco a capire che cosa usate come combustibile.»
Ci fu un momento di silenzio, un silenzio pulsante e vibrante come poteva esserlo in quel luogo vasto e misterioso. La pulsazione era forte nelle orecchie di Len, e oscuramente egli intuì di trovarsi di fronte a una spaventosa rivelazione, immobile sul ciglio di un abisso oscuro, pauroso e insondabile; lo capì dai volti tesi e attenti degli uomini, e dal modo in cui la domanda di Esaù parve ondeggiare, vibrante e sospesa nell’aria, e le sue eco non si spensero per molto, molto tempo.
«Be’,» disse Sherman, in tono gentile, discorsivo, e gli occhi di Hostetter brillavano, penetranti e angosciati, nella luce. «Vedete, noi usiamo l’uranio.»
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