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Leigh Brackett: La città proibita

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Leigh Brackett La città proibita

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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Leigh Brackett

La città proibita

Nessuna città, nessun paese, nessuna comunità con popolazione superiore a duemila abitanti, o con più di duecento fabbricati per miglio quadrato, dovrà essere costruita, o ne verrà permessa l’esistenza, in qualsiasi regione degli Stati Uniti d’America.

Costituzione degli Stati Uniti TRENTESIMO EMENDAMENTO

Libro Primo

1.

Len Colter sedeva all’ombra del muro della scuderia, mangiava pane e burro, e meditava un peccato. Aveva quattordici anni, e li aveva vissuti tutti nella fattoria, a Piper’s Run, dove le opportunità di peccare davvero erano fortunatamente poche. Ma ora Piper’s Run era a più di trenta miglia di distanza, e lui stava dando uno sguardo al mondo, colorato di distrazioni e allettante di possibilità. Si trovava alla Fiera di Canfield. E per la prima volta in vita sua, Len Colter si trovava di fronte a una decisione importante.

E si accorgeva che era difficile.

«Papà non finirà più di darmele, se verrà a saperlo,» disse.

Il cugino Esaù disse:

«Hai paura?»

Esaù aveva compiuto quindici anni tre settimane prima, e questo significava che non avrebbe dovuto andare più a scuola con i bambini. Era ancora ben lungi dall’essere contato tra gli uomini, ma aveva comunque compiuto un gran passo, e Len ne era impressionato. Esaù era più alto di Len, e aveva gli occhi neri che brillavano e scintillavano come quelli di un puledro indomito, perennemente in cerca di qualcosa che non riusciva mai a trovare, forse perché ancora non sapeva che cosa fosse, le sue mani erano irrequiete, e molto abili.

«Ebbene?» domandò Esaù. «Hai paura o no?»

Len avrebbe voluto mentire, ma sapeva che Esaù non si sarebbe lasciato ingannare neppure per un momento. Prese tempo, si mosse, nervosamente, mangiò l’ultimo boccone di pane, succhiò il burro rimasto sulla punta delle dita, e disse:

«Sì.»

«Uh!» disse Esaù. «Pensavo che tu cominciassi a crescere. Quest’anno avresti dovuto restare a casa con i bambini. Paura di una bastonata!»

«Ne ho già fatto l’esperienza,» protestò Len. «E se credi che papà non sappia darle sode, vieni a provare, una volta o l’altra. E non ho nemmeno pianto, da due anni a questa parte. Be’, non molto, almeno.» Rimase un poco a meditare, sollevando le ginocchia e circondandole con le braccia, tenendo il mento posato sulle mani. Era un ragazzo magro, sano, dal volto serio. Indossava pantaloni fatti in casa, e robusti stivali lavorati a mano, tutti coperti di polvere, e una camicia di cotone ruvido, a trama grossa, con un collaretto stretto, e senza colletto. Aveva i capelli castano chiaro, tagliati sopra le spalle, e una frangia che arrivava fin sopra gli occhi, mentre in testa portava un copricapo marrone, di forma piatta e rotonda, con una larga falda.

Len apparteneva ai Nuovi Mennoniti, che portavano dei cappelli marrone per distinguersi dai primi Vecchi Mennoniti, che li portavano neri. Nel ventesimo secolo, cioé due generazioni prima, c’erano stati soltanto i Vecchi Mennoniti e gli Amish, che avevano contato solo poche migliaia di persone, ed erano stati considerati stravaganti ed eccentrici perché si erano ostinati a seguire i vecchi sistemi di lavorazione manuale, e non avevano voluto saperne delle città e delle macchine. Ma quando le città avevano cessato di esistere, e gli uomini avevano scoperto che nel mondo così trasformato proprio loro erano stati i più adatti a sopravvivere, i Mennoniti si erano rapidamente moltiplicati, fino a raggiungere un numero di diversi milioni.

«No,» disse Len, lentamente. «Non è delle bastonate che ho paura. È di papà. Sai come la pensa lui, intorno a queste prediche. Me le proibisce. E zio David le proibisce a te. Sai come la pensano. Non voglio che papà si arrabbi con me… non per questo.»

«Più che bastonarti, che cosa può fare? Niente,» disse Esaù.

Len scosse il capo.

«Non lo so.»

«Va bene, allora. Non venire.»

«Tu ci vai… di sicuro?»

«Di sicuro. Ma non ho bisogno di te.»

Esaù si appoggiò al muro, e parve dimenticare Len, che mosse le punte degli stivali avanti e indietro, formando due irregolari ventagli nella polvere, e continuò a riflettere. L’aria calda era impregnata dell’odore di cibo e animali, insieme agli odori del fumo di legna e ai profumi delle cucine. C’erano delle voci nell’aria, molte voci, tutte mescolate e confuse in un insistente, onnipresente brusio. Pareva di essere vicini a uno sciame di api, o di ascoltare l’alzarsi e abbassarsi del vento tra gli alti pini, ma era qualcosa di più. Era il mondo che parlava.

Esaù disse:

«Si gettano a terra, e cominciano a rotolarsi e a urlare.»

Len respirò profondamente, e si sentì percorrere da un brivido. La grande fiera si stendeva all’infinito, da tutte le parti, ingombra di carri e carrozzoni, baracche e recinti, bestie e persone, e quello era l’ultimo giorno. Una notte ancora da trascorrere giacendo sotto i carrozzoni, raggomitolati nelle coperte per proteggersi dal fresco di settembre, osservando i fuochi che ardevano rossi e misteriosi, e facendosi molte domande sugli stranieri che dormivano intorno a quei fuochi. Domani il carro si sarebbe rimesso in movimento, sobbalzando e tintinnando, di nuovo a Piper’s Run, e lui non avrebbe rivisto una cosa simile per un altro anno. O forse mai più. Nel bel mezzo della vita possiamo trovarci nel cuore della morte. Oppure avrebbe potuto rompersi una gamba, l’anno prossimo, o papà avrebbe potuto dirgli di rimanere a casa, come aveva dovuto restare questa volta suo fratello James, per sorvegliare la nonna e il bestiame.

«Anche le donne,» disse Esaù.

Len si strinse più forte le ginocchia.

«Come fai a saperlo? Non ci sei mai stato.»

«Me l’hanno detto.»

«Le donne,» bisbigliò Len. Chiuse gli occhi, e dietro le palpebre apparvero visioni di prediche selvagge, quali mai un Nuovo Mennonita aveva ascoltato, di grandi fuochi fumosi e vaghe eccitazioni, e di una figura, che somigliava molto a sua mamma con la cuffia e le voluminose gonne tessute in casa, distesa a terra e agitata, che scalciava come la piccola Ester quando era di cattivo umore. La tentazione calò di nuovo su di lui, e fu perduto.

Si alzò in piedi, e guardò Esaù, e disse:

«Vengo anch’io.»

«Ah!» disse Esaù, e si alzò in piedi a sua volta. Tese la mano, e Len la strinse. Si scambiarono uno sguardo d’intesa, e sorrisero. Il cuore di Len batteva più forte, e il ragazzo provava un senso di colpa, come se il padre fosse stato dietro di lui, ascoltando ogni sua parola; ma anche in questo pensiero c’era qualcosa di esaltante. C’era un diniego dell’autorità, un’affermazione di se stesso, una sensazione di esistere. Gli parve, improvvisamente, di essere diventato più alto e più forte, e negli occhi di Esaù gli parve di leggere un nuovo rispetto.

«Quando andiamo?» domandò.

«Più tardi, quando sarà buio. Tienti pronto. Ti avvertirò io.»

I carri dei fratelli Colter erano disposti fianco a fianco: non sarebbe stato difficile passare da uno all’altro. Len annuì.

«Fingerò di essere addormentato, ma non lo sarò.»

«Meglio di no,» disse Esaù. La sua stretta si fece più forte, così forte da lasciare il ricordo. «E mi raccomando di non dire niente, d’accordo?»

«Oh!» protestò Len, e strinse le labbra, offeso. «Per chi mi hai preso? Non sono più un bambino!»

Esaù sogghignò, assumendo il tono cameratesco che si usa tra uomini.

«Naturalmente no. Allora è stabilito. Adesso andiamo a dare un’altra occhiata ai cavalli. Vorrei dare notizie a mio padre di quella cavalla nera che vuole trattare.»

S’incamminarono insieme lungo il muro della scuderia. Era la scuderia più grande che Len avesse mai visto, quattro o cinque volte più lunga di quella di casa sua. Le vecchie travi erano state aggiustate e rifatte, e il tempo le aveva rese grige e uniformi, ma qua e là sporgeva il legno originale, e si potevano ancora scorgere delle tracce di vernice rossa. Len guardò quelle tracce, poi si fermò e il suo sguardo spaziò sul terreno della fiera, ed egli socchiuse gli occhi, in modo che tutto ondeggiasse e fluttuasse davanti a lui.

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