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Leigh Brackett: La città proibita

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Leigh Brackett La città proibita

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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«Se c’è della malvagità tra voi, cacciatela!»

Un ragazzo magro, con la barba che appena spuntava sul mento, balzò in piedi. Puntò il braccio. Gridò, «Io lo accuso!» e la schiuma apparve agli angoli della sua bocca.

In un punto ci fu un improvviso, violento movimento. Un uomo era balzato in piedi, tentando di fuggire, e diversi altri lo avevano preso. Le loro spalle si muovevano, le loro gambe danzavano, e la folla intorno si agitava, spingendo e tirando. Finalmente lo trascinarono indietro, e Len poté vederlo chiaramente. Era il mercante biondo, William Soames. Ma il suo volto era diverso, ora, pallido, e pauroso, e raggelato.

Il predicatore gridò qualcosa sulla radice e sui rami. Era accovacciato ora sull’orlo del carro, con le braccia levate alte, le mani protese verso il cielo. Cominciarono a spogliare il mercante. Gli strapparono la robusta giacca di cuoio dalla schiena, e strapparono i pantaloni di pelle dalle gambe, lasciandolo bianco e nudo. Portava ai piedi degli stivali leggeri, e uno gli venne tolto, mentre l’altro venne dimenticato, e rimase al suo posto. Poi tutti si ritirarono, scostandosi da lui, in modo che egli rimanesse solo al centro di uno spazio aperto. Qualcuno lanciò un sasso.

Il sasso colpì Soames alla bocca. Egli vacillò un poco, e sollevò le braccia, ma un altro sasso lo raggiunse, e un altro ancora, e pezzi di legno e di terriccio, e la sua pelle bianca fu ben presto tutta macchiata e segnata. Soames cercò di voltarsi prima da una parte, poi dall’altra, cadde, incespicò, si piegò in due, tentando di trovare una via di scampo, cercando di evitare i colpi. Aveva la bocca aperta e i denti apparivano insanguinati, sangue che scorreva dagli angoli della bocca e macchiava la barba, ma Len non poté sentire se egli stesse gridando oppure no, perché la folla urlava, un suono ingordo, affannoso, acuto, osceno, e le pietre continuavano a cadere sull’uomo. Poi tutta la folla cominciò a spostarsi verso il fiume, trascinando Soames con sé. Il mercante si avvicinò, passando vicino al carro, vicino all’ombra dove Len se ne stava a guardare, aggrappato ai raggi, e Len poté vedere chiaramente i suoi occhi. Gli uomini lo pressavano da vicino, con gli stivali che calpestavano pesantemente la polvere, e anche le donne venivano, con i capelli scarmigliati e le pietre in mano. Soames cadde dall’argine nelle acque poco profonde del fiume. Gli uomini e le donne lo seguirono, e lo coprirono, come le mosche coprono un pezzo in decomposizione dopo un macello, e le loro mani si alzavano e si abbassavano, si alzavano e si abbassavano.

Len girò il capo, e guardò Esaù. Stava piangendo, e il suo viso era bianco come il marmo. Esaù aveva le mani strette intorno allo stomaco, premute forte, e il suo corpo era curvo, e gli occhi erano enormi e fissi. Improvvisamente, egli si voltò e fuggì via, carponi, come un animale in fuga sul terreno. Len si affrettò a seguirlo, muovendosi sulle mani e sulle ginocchia, come un gambero, con l’aria scura e vorticante intorno a lui. Ora riusciva solo a pensare alle noci che Soames gli aveva regalato. Si sentì male, e dovette fermarsi a vomitare, premuto da qualcosa di terribilmente freddo e pesante. La folla stava ancora rumoreggiando, sulla riva del fiume. Quando Len si rialzò, Esaù era già scomparso nel buio.

Preso dal panico, cominciò a fuggire tra le carrozze e i carri, chiamando, «Esaù! Esaù!», ma non ci fu risposta, o, se c’era, non poté udirla perché il rumore della morte violenta risuonava nelle sue orecchie troppo forte. Sbucò alla cieca in uno spazio aperto, e là incontrò un’alta, torreggiante figura che allargò le lunghe braccia e lo prese.

«Len,» disse. «Len Colter».

Era il signor Hostetter. Len sentì che le ginocchia gli si piegavano. Tutto diventò molto buio e silenzioso, ed egli udì la voce di Esaù, e poi quella del signor Hostetter, ma quei suoni erano lontani e sottili, come voci portate dal vento in una giornata afosa. Poi si trovò su un carro, enorme e pieno di odori insoliti, e il signor Hostetter stava spingendo dentro al carro Esaù, dopo di lui. Esaù aveva il volto di un fantasma. Len disse:

«Avevi detto che sarebbe stato divertente».

Esaù rispose:

«Non avrei mai pensato che loro…». Singhiozzò, e sedette accanto a Len, con la testa sulle ginocchia.

«State fermi,» ordinò il signor Hostetter. «Devo prendere una cosa».

Se ne andò. Len si alzò, e andò a guardare, con gli occhi irresistibilmente attirati verso il chiarore del fuoco e verso la folla che gemeva, singhiozzava, urlava, ondeggiava avanti e indietro, gridando che tutti erano salvi. Gloria, gloria, alleluia, il frutto del peccato è la morte, alleluia!

Il signor Hostetter corse attraverso lo spazio aperto, verso il carro di un altro mercante, fermo accanto a una macchia d’albero. Len non riuscì a leggere il nome sul telone, ma fu sicuro che quello doveva essere il carro di Soames. Anche Esaù stava guardando, ora. Il predicatore aveva ricominciato a parlare, tenendo alte le braccia, con le mani al cielo.

Il signor Hostetter balzò giù dall’altro carro, e tornò indietro di corsa. Portava sotto il braccio un cofanetto, lungo circa trenta centimetri. Salì di nuovo a cassetta, e Len si affrettò ad accostarsi a lui, dall’interno del carro.

«Per favore,» supplicò. «Posso sedere accanto a voi?»

Hostetter gli porse il cofanetto.

«Mettilo dentro, presto. D’accordo, vieni qui. Dov’è Esaù?»

Len si voltò a guardare. Esaù era raggomitolato sul fondo del carro, con il volto nascosto in un mucchio di stoffa. Lo chiamò, ma Esaù non rispose.

«È svenuto,» disse Hostetter. Srotolò la frusta con uno schiocco imperioso, e gridò ai cavalli. I sei grandi bai si mossero come una sola bestia, tendendo i finimenti, e il carro si mosse pesantemente. Cominciò ad acquistare velocità, e il chiarore del falò rimase indietro, insieme alla voce della folla. C’era solo la strada buia, e gli alberi neri che la circondavano, c’era l’odore della polvere e la pace dei campi vicini. I cavalli rallentarono, allora, acquistando un’andatura meno precipitosa. Il signor Hostetter mise il braccio intorno alle spalle di Len, che si aggrappò a lui.

«Perché l’hanno fatto?» domandò.

«Perché hanno paura».

«Di che cosa?»

«Di ieri,» disse il signor Hostetter. «Di domani». Improvvisamente, con uno scoppio di collera violenta, egli li maledisse. Len lo fissò, con gli occhi e la bocca spalancati. Hostetter strinse le labbra, duramente, interrompendo a metà una parola, e scosse il capo. Len sentì che egli tremava in tutto il corpo. Quando il signor Hostetter parlò di nuovo, la sua voce era normale… o quasi.

«Resta con la tua gente, Len. Non ne troverai di migliore».

Len mormorò:

«Sì, signore».

Nessuno parlò, dopo quel breve scambio. Il carro procedeva sobbalzando sulla strada polverosa, e il movimento intontì Len, non l’intontimento sano della sonnolenza, ma quell’intontimento sconvolto da apprensioni e angosce che viene dopo che tutte le forze sono state consumate, quelle del corpo e quelle della mente. Esaù era silenzioso, sul fondo del carro, silenzioso e immobile. Finalmente i cavalli rallentarono ancora l’andatura, procedendo al passo, e Len vide che erano ritornati nel terreno della fiera.

«Dov’è il vostro carro?» domandò Hostetter, e Len glielo disse. Quando furono vicini a esso, il fuoco ardeva di nuovo nella notte, e papà e lo zio David erano in piedi, accanto alle fiamme. Sembravano cupi e irati, e quando i ragazzi scesero dal carro essi non dissero niente, limitandosi a ringraziare Hostetter per averli riportati al carro. Len guardò suo padre. Avrebbe voluto gettarsi in ginocchio e supplicare, «padre, ho peccato». Ma non riuscì a fare altro che rimanere là, sconvolto e attonito, singhiozzando e tremando di nuovo.

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