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Leigh Brackett: La città proibita

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Leigh Brackett La città proibita

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La storia di Len Colter e di suo cugino Esaù, può essere la storia dei nostri nipoti. Len Colter viveva in un piccolo paese rurale degli Stati Uniti, dove per legge, dopo la distruzione, era stata proibita la costruzione di città e la diffusione del sapere nelle sue forme piú avanzate. Due generazíoní prima era caduta sulle loro città la grande Distruzione, provocata dalla conoscenza scientifica dei segreti della natura. Lo spaventoso flagello era stato interpretato dalle coscienze terrorizzate come il castigo di Dio per l’orgoglio e i peccati dell’uomo. I due giovani, spinti dal desiderio delle «cose vecchie», delle quali sentivano parlare con nostalgia dai nonni: le automobili, gli aeroplani, le case con ogni comfort, le città in una fantasmagoria di luci, e ossessionati dai discorsi sentiti di nascosto sulla esistenza di una città sopravvissuta, si mettono su di un sentiero aspro e difficile. Incontreranno l’amicizia, e la delusione, l’amore e la morte, la fame e la sete, la lotta contro le intemperie e contro la propria coscienza: ma andranno alla ricerca della città del loro sogno. Len, dal carattere piú complesso, sostiene la lotta píú aspra ed è salvato piú volte, non solo materialmente dall’amicizia di Hostetter, il mercante, che rappresenta il legame ideale tra il mondo lasciato da Len e il mondo nuovo. E sarà Hostetter che ricondurrà Len di fronte alla realtà e lo costringerà a una decisione.

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«Cosa stai facendo, adesso?» domandò Esaù, impaziente.

«Cerco di vedere.»

«Be’, non puoi vedere niente a occhi chiusi. E poi cosa intendi dire… cosa cerchi di vedere?»

«Com’erano gli edifici quando erano tutti dipinti, come ha detto la nonna. Ricordi? Quando lei era piccola…»

«Già,» disse Esaù. «Alcuni rossi, altri bianchi. Doveva essere un vero spettacolo.» Anche lui socchiuse gli occhi. Le baracche e gli edifici ondeggiarono, ma rimasero senza colore.

«In ogni caso,» disse Len, rinunciando alle sue fantasticherie, «Scommetto che non hanno mai avuto una fiera come questa.»

«Ma cosa stai dicendo?» esclamò Esaù. «La nonna ha detto che prima qui c’era un milione di persone, e un milione di quelle automobili, o carri, o come si chiamavano, tutti allineati in fila a perdita d’occhio, con il sole che batteva sulle parti metalliche, facendole scintillare. Pensa, un milione!»

«Ah!» disse Len. «Non è possibile. Dove avrebbero potuto trovare lo spazio per accamparsi?»

«Stupido, non avevano bisogno di accamparsi! La nonna ha detto che venivano qui, da Piper’s Run, in meno di un’ora, e che potevano tornare indietro nella stessa giornata.»

«Lo so benissimo che lo ha detto la nonna,» osservò Len, pensieroso. «Ma tu ci credi davvero?»

«Certo che ci credo!» Gli occhi neri di Esaù brillarono. «Avrei voluto vivere in quei giorni. Quante cose avrei fatto!»

«Per esempio?»

«Per esempio avrei guidato uno di quei carri, e senza risparmiare sulla velocità! E magari, mi sarebbe piaciuto anche volare.»

«Esaù!» esclamò Len, profondamente scosso. «Non farti mai sentire da tuo padre… a dire cose simili!»

Esaù arrossì un poco, e mormorò che non aveva paura, ma si guardò ugualmente intorno, visibilmente a disagio. Girarono l’angolo della scuderia. Sul frontone, in alto, sopra la porta, c’erano quattro numeri fatti di pezzi di legno inchiodati. Len li guardò. C’era un uno, e poi un nove con un pezzo caduto dalla coda, un cinque, con la piccola stanghetta anteriore mancante, e infine un due. Esaù diceva che quello era l’anno nel quale era stata costruita la scuderia, cioé prima ancora della nascita della nonna. Questo indusse Len a pensare alla casa di riunione di Piper’s Run… la nonna la chiamava ancora «la chiesa»… sopra la quale c’era una data, parzialmente nascosta da un pergolato di lillà. Quella data era 1842… prima di quando chiunque fosse esistito, pensò Len. Scosse il capo, sopraffatto dal senso dell’antichità del mondo.

Entrarono e guardarono i cavalli, parlando in tono esperto di garretti e di metatarsi, ma tenendosi in disparte dagli uomini che sostavano in piccoli gruppi davanti a uno o a un altro dei molti stalli, lenti di parola e rapidi d’occhi. Erano quasi tutti dei Nuovi Mennoniti, e differivano da Len e da Esaù solo per l’altezza e per le splendide barbe che si stendevano a ventaglio sui loro petti, anche se le labbra superiori erano accuratamente rasate. Alcuni, però, portavano dei lunghissimi baffi, e cappelli flosci di diverse fogge, e i loro abiti non seguivano alcun modello particolare. Len guardò costoro di sottecchi, con intensa curiosità. Quegli uomini, o altri simili a loro… forse altri tipi di uomini, che lui non aveva ancora visto… si riunivano segretamente nei campi e nei boschi, e predicavano, e urlavano, e si rotolavano sul terreno. Gli pareva di sentire la voce di suo padre, che diceva, «La religione di una persona, la sua setta, sono affar suo. Ma quella gente non ha una religione, né appartiene a una setta. Sono una massa, con i terrori di una massa, la crudeltà di una massa, guidata da uomini in parte pazzi, in parte astuti, che li mettono gli uni contro gli altri.» E poi taceva e si faceva scuro in volto quando Len faceva altre domande, e diceva, «Ti proibisco di andare, ecco tutto, nessuna persona timorata di Dio può prendere parte a simili malvagità.» Ora capiva, e non si meravigliava che suo padre non avesse voluto parlare di quelle donne che si rotolavano a terra e probabilmente mostravano la loro biancheria e tutto il resto. Len rabbrividì di eccitazione, e desiderò che la notte giungesse presto.

Esaù decise che, sebbene la cavalla nera in questione avesse il collo un po’ troppo sottile e incavato, sarebbe stata adatta a venire sellata, anche se lui, personalmente, avrebbe scelto il bellissimo stallone baio in fondo alla fila. Sarebbe stato veloce come il vento, quello! Ma bisognava pensare sempre alle donne, che avevano bisogno di animali sicuri e docili. Len assentì, ed i due ragazzi vagabondarono un po’ qua e là, e poi Esaù disse:

«Andiamo a vedere come procedono le trattative per quelle vacche?»

Naturalmente, quelli che si occupavano delle trattative erano papà e lo zio David, e Len scoprì di non sentirsela troppo di vedere papà, in quel momento. Così suggerì invece di scendere a vedere i carri dei mercanti, le vacche le si potevano vedere sempre… e se ne vedevano tante, nella fattoria!… ma i carri dei mercanti erano un’altra cosa. Tre, forse quattro volte in un’estate capitava di vederne uno a Piper’s Run, e qui ce n’erano diciannove, tutti insieme in un sol posto, nello stesso tempo.

«E poi,» proseguì Len, con pura e semplice bramosia, «Non si può mai sapere: il signor Hostetter potrebbe darci ancora di quei confetti.»

«Ci credo proprio!…» fu il commento scettico di Esaù, che lo seguì ugualmente, però.

I carri dei mercanti erano tutti allineati in una fila, con i timoni in fuori e il retro appoggiato contro un lungo capannone. Erano dei carri enormi, con grandi tende e ogni genere di cose appese ai sostegni interni, tanto da somigliare a profonde, odorose caverne su ruote.

Len li guardava sempre a occhi spalancati. Per lui quelli non erano carri, ma vascelli avventurosi venuti da rive lontane. Aveva spesso ascoltato i discorsi casuali dei mercanti, e quelle frasi, quelle parole, quei commenti noncuranti gli avevano dato una vaga visione di un’intera landa sconfinata e senza città, la verde, torpida, comoda e fertile campagna nella quale solo poche persone molto, molto vecchie potevano ricordare le maestose, terribili città che avevano dominato il mondo prima della Distruzione. La sua mente conservava un confuso caleidoscopio nel quale si mescolavano le terre lontane delle quali parlavano i mercanti: le piccole colonie di naviganti e i villaggi dei pescatori sulle coste dell’Atlantico, le distese di legname e gli accampamenti dei boscaioli negli Appalachiani, le infinite distese di terre coltivate dai nuovi Mennoniti nel Midwest, le fattorie sulle colline e le capanne dei cacciatori al sud, i grandi fiumi a ovest, con le zattere e le chiatte che collegavano le rive e solcavano le acque tumultuose, le grandi pianure al di là dei fiumi, con i cavalieri, e le fattorie, e le sterminate mandrie di bestiame selvaggio, le maestose, solenni montagne incappucciate di bianco, e la terra, e il mare, ancora più lontano, a ovest. Una terra immensa, ora, come lo era stata centinaia di anni prima, e per le sue strade polverose e tra i villaggi sonnolenti si muovevano quei grandi carri dei mercanti, che avanzavano sulle ruote enormi, si fermavano, sostavano, e riprendevano a muoversi.

Il carro del signor Hostetter era il quinto, e Len lo conosceva molto bene, perché il signor Hostetter lo portava a Piper’s Run tutte le primavere, durante il suo viaggio a nord, e tutti gli autunni, durante il ritorno a sud, da molti più anni di quanti Len potesse personalmente ricordare. Degli altri mercanti passavano di là, di quando in quando, senza alcuna regola fissa, ma il signor Hostetter era quasi uno del posto, anche se veniva da un luogo della Pennsylvania.

«Se offrissimo di dar da mangiare e da bere ai suoi cavalli?» disse Len, sempre aggrappandosi all’idea dei confetti: non si poteva mendicare, ma il lavoratore aveva sempre diritto alla ricompensa.

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