Leigh Brackett - Venusiani addio

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Leigh Brackett

Venusiani addio

1

La brezza soffiava costante, ma non impetuosa. Gonfiava la vela al quarto quel tanto che bastava a spingere attraverso l’acqua lo scafo sudicio e coperto d’alghe troppo cresciute… non di più. Matt Harker era disteso accanto alla barra del timone e contava i rivoli di sudore che colavano sulla sua nudità e fissava con occhi cupi, e opachi, la notte color indaco. La rabbia, incatenata e impotente, crebbe nella sua gola come vomito amaro.

Il mare — la moglie venusiana di Rory McLaren lo chiamava il Mare degli Opali Mattutini — si stendeva immoto, nero, rigato dalla fosforescenza. Il cielo gravava basso sul mare, la densa coltre di nubi di Venere che aveva fatto del Sole una leggenda a stento ricordata dagli esiliati della Terra. Luci ardenti cavalcavano nell’oscurità blu profondo, disposte in fila. Dodici navi, tremilaottocento persone, che non andavano da nessuna parte, intrappolate nell’intervallo fra la nascita e la morte, e che non sapevano proprio che farne.

Matt Harker gettò uno sguardo alla vela e poi alla lanterna di poppa della nave che li precedeva. Il suo volto, al fioco bagliore che illuminava Venere perfino di notte, era oblungo e scarno, una successione d’ombre e di scabre prominenze ossee, coperto dalle cicatrici della vita, del bisogno e delle privazioni, della morte e dell’assenza di morte. Era un uomo magro, non alto di statura, tenace, con un’agilità da rettile nei movimenti.

Qualcuno scivolò silenzioso attraverso il ponte, da prua, evitando i corpi addormentati accalcati dovunque. Harker disse, senza emozione: «Ciao, Rory».

Rory McLaren rispose: «Ciao, Matt». Si sedette. Era giovane, forse la metà degli anni di Harker. C’era ancora speranza sul suo viso, ma già mostrava i segni della fatica. Restò seduta un po’, senza parlare, né guardare, poi disse: «In tutta franchezza, Matt, quanto tempo possiamo resistere ancora?»

«Cosa c’è, ragazzo? Cominci a cedere?»

«Non so. Forse. Quando ci fermeremo da qualche parte?»

«Quando troveremo un posto dove fermarci».

«C’è forse un posto dove fermarsi? Mi pare che da quando sono nato, non abbiamo fatto altro che cercarlo. C’è sempre qualcosa che non va. Indigeni ostili, o la febbre, o il terreno cattivo… sempre qualcosa, e noi ci rimettiamo in viaggio. Non è giusto. Non è affatto questo il modo per cercar di vivere».

Harker replicò: «Te l’avevo detto di non ostinarti ad aver figli».

«E questo cosa c’entra?»

«Stai già cominciando a preoccuparti. Il piccolo non è ancora arrivato, e tu già ti preoccupi».

«Certo che mi preoccupo». McLaren si prese all’improvviso la testa fra le mani e imprecò. Harker seppe che l’aveva fatto per impedirsi di piangere.

«Sono preoccupato», ammise McLaren. «Forse, a mia moglie e a mio figlio capiterà la stessa cosa che è successa ai tuoi. Abbiamo la febbre a bordo».

Per un attimo gli occhi di Harker arsero come carboni. Poi, alzò lo sguardo alla vela e disse: «Starebbero meglio morti».

«Non son cose da dire!»

«È la verità. Tu mi hai chiesto quando ci fermeremo… quando avremo trovato il posto giusto. Forse mai. Tu ti lagni di aver fatto questa vita da quando sei nato. Be’, io ho dovuto farla da molto più tempo. Prima che tu nascessi, ho visto coi miei occhi il nostro primo insediamento incendiato dal Popolo della Nube, e mia madre e mio padre crocifissi nella loro vigna. Ero fra quelli partiti dalla Terra, quando iniziò questo viaggio alla Terra Promessa, e sto ancora aspettando di vederla».

I tendini sul volto di Harker si erano tesi come cavi d’acciaio. La sua voce aveva una calma terribile.

«Tua moglie e tuo figlio starebbero assai meglio se morissero adesso, subito. Così, Viki che è giovane e ha ancora speranza, non la perderà mai. E il bambino non aprirà mai gli occhi su questa vita grama».

Sim, un uomo nero, grande e grosso, diede il cambio ad Harker prima dell’alba. Iniziò a cantare sommesso, qualcosa di lento e lamentoso come la brezza, e assai bello. Harker gli lanciò una maledizione e salì dentro prua per dormire, ma la canzone continuò ad accompagnarlo. Oh, ho guardato il Giordano, e cos’ho visto arrivare per portarmi a casa…

Harker si addormentò, infine. Cominciò a gemere e a contorcersi, e ad urlare. Gli altri intorno a lui si svegliarono. Lo fissarono pieni di curiosità. Da sveglio, Harker era un lupo solitario, violento e sempre di pessimo umore. Quando, a lunghi intervalli, era colto da uno dei suoi attacchi, nessuno era particolarmente desideroso di aiutarlo a uscirne. Provavano una sorta di perverso piacere a potergli sbirciare nell’intimo, quando lo coglievano così allo scoperto.

Ad Harker non importava. Stava di nuovo giocando in mezzo alla neve: aveva sette anni, e i cumuli erano bianchi e alti nel cielo, un cielo così azzurro e pulito che il bambino si chiedeva se Dio non facesse anche lui le pulizie ogni due o tre giorni, come la mamma quando sfregava energicamente il pavimento in cucina. Il sole splendeva. Era come una grande moneta d’oro, e traeva infiniti barbagli dalla neve trasformandola in uno spolverio di diamanti. Alzò le braccia verso il sole, e l’aria fredda lo schiaffeggiò come due mani pulite, e lui scoppiò a ridere. E poi ogni cosa scomparve…

«Mio Dio», disse qualcuno, «ma quelle sul suo viso non sono lagrime?»

«Strilla… Strilla come un bambino, non sentite?»

«Ehi», disse ancora il primo, impacciato, «non credete che dovremmo svegliarlo?»

«Al diavolo quel vecchio gattaccio inacidito. Ehi, ascoltate…»

«Papà», bisbigliò Harker, «papà, voglio tornare a casa».

L’alba arrivò come una manciata di opali di fuoco attraverso le nubi di un grigio perlaceo. Harker, nel sonno, udì il grido fioco e lontano. Si sentiva stordito, stanco, le palpebre gli si erano come incollate insieme. Il grido a poco a poco acquistò forma e divenne la parola «Terra!» ripetuta più volte.

Harker si scosse per svegliarsi e si alzò in piedi.

Il mare privo di maree rifletteva i colori opalini, sotto la foschia. Branchi di piccoli draghi marini, le scaglie simili a gioielli, s’innalzavano dalle onnipresenti isole galeggianti d’alghe, e le alghe stesse, o almeno una parte di esse, si agitarono, pulsando d’una vita senziente.

Davanti a loro una lunga e bassa prominenza della costa si dilatava nell’inestricabile groviglio d’una palude. Oltre la bassa distesa paludosa, si innalzava a picco fino alle nubi una scogliera di granito, una scarpata maestosa che si drizzava come una muraglia davanti agli sguardi colmi di speranza degli esuli.

Harker trovò Rory McLaren ritto in piedi, lì accanto, il braccio avvolto intorno a Viki, sua moglie. Viki era una delle molte venusiane che avevano sposato coloni terrestri. La sua pelle era bianca come il latte, i suoi capelli d’un vivido argento, le sue labbra scarlatte. I suoi occhi erano come il mare, mutevoli, pieni di vita nascosta. In quel momento avevano quella particolare espressione che gli occhi delle donne assumono quando pensano alla vita, al suo inarrestabile perpetuarsi… Harker distolse lo sguardo da lei.

McLaren disse: «Sì, è terra».

Harker ribatté: «È fango. È una palude… la febbre. È identica al resto».

Viki disse: «Non possiamo fermarci qui, solo un po’?»

Harker scrollò le spalle. «Spetta a Gibbons decidere». Stava impulsivamente per chiederle quale dannata differenza facesse dove sarebbe nato il bambino, ma per una volta tenne la lingua a freno. Viki si allontanò. In qualche punto della parte centrale della nave una donna gridò nel delirio. C’erano tre forme immote, avvolte in coperte a brandelli e distese sul tavolato accanto agli ombrinali.

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