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Leigh Brackett: Venusiani addio

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Leigh Brackett Venusiani addio

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«Forse», rispose Harker, «salgono dritte al di là del cielo». La febbre era tornata a cogliere anche lui. Essa viveva nel midollo degli esuli, riaffiorando a intervalli per scuoterli e bruciarli, per poi ritirarsi. A volte non si ritirava, e dopo nove giorni non aveva più bisogno di farlo.

McLaren disse: «Non te ne importerebbe niente se fosse così, vero?»

«Non ti ho chiesto io di venire».

«Ma non te ne importerebbe».

«Ah, chiudi il becco».

McLaren si lanciò alla gola di Harker.

Harker lo colpi, con calma e precisione. McLaren si accasciò al suolo, si afferrò la testa fra le mani e pianse. Sim si tenne fuori dalla zuffa. Scosse la testa, e dopo un po’ cominciò a canticchiare fra sé… o rivolgendosi a qualcuno al di là di lui stesso. «Oh, nessuno capisce questo problema, come io lo vedo…»

Harker si alzò in piedi. Le orecchie gli rintronavano e tremava in modo incontrollato, ma riuscì ugualmente a prendere su di sé un po’ del peso di McLaren. Stavano risalendo una cengia obliqua, abbastanza larga e non troppo difficile.

«Andiamo avanti», sollecitò Harker.

Una sessantina di metri oltre quel punto la cengia piegava bruscamente verso il basso, in una sorta di gradinata rotta e accidentata. Sopra le loro teste la parete della scogliera si rigonfiava verso l’esterno. Soltanto una mosca avrebbe potuto scalarla. Si fermarono. Harker si esibì in una lenta e ragionata serie d’imprecazioni. Sim chiuse gli occhi e sorrise. Anche lui era un po’ ammattito a causa della febbre.

«C’è la città d’oro lassù in cima. È là che sto andando».

S’incamminò lungo la cengia, seguendo la sua pendenza fino a una gobba rocciosa, oltre la quale scomparve. Harker rise sardonico. McLaren si liberò dalla stretta e testardamente seguì la strada di Sim. Harker scrollò le spalle e lo imitò.

Subito oltre la gobba la cengia finiva.

Rimasero immobili. Le dense nubi di vapore li bloccavano su un lato, e sull’altro s’innalzava una parte di granito sulla quale erano appesi dei rampicanti carnosi.

Vicolo cieco.

«Allora?» fece Harker.

McLaren si sedette. Non pianse né disse niente. Si limitò a restar seduto. Sim era là, in piedi, le braccia penzoloni e il mento appoggiato sull’ampio petto nero. Harker disse ancora: «Capisci cosa voglio dire quando rido, se sento parlare di Terra Promessa? Venere è una roulette truccata. Non potrai mai vincere».

Fu allora che si accorse dell’aria fresca. Aveva creduto, sulle prime, che fosse soltanto il brivido della febbre, ma la brezza gli scompigliava i capelli e avvolgeva il suo corpo secondo una direzione ben precisa. Aveva perfino un odore fresco e pulito. Soffiava attraverso la coltre dei rampicanti.

Harker cominciò a scavare col suo coltello. Scopri che quella era la imboccatura d’una caverna, uno squarcio frastagliato, lisciato sul fondo da quello che un tempo doveva essere stato un fiume.

«La corrente d’aria arrivava dalla sommità dell’altopiano», disse Harker. «Lassù deve soffiare il vento che la spinge in basso. Potrebbe esserci il modo di passare».

McLaren e Sim mostrarono entrambi un lento e terribile rifiorire della speranza. Tutti e tre entrarono senza parlare nella galleria.

2

Proseguirono veloci. L’aria pulita agiva su di loro come un tonico, e la speranza li stimolava. La galleria saliva seguendo un’inclinazione piuttosto ripida, e poco dopo Harker udì uno scroscio d’acqua, un mormorio sordo e tonante, come un fiume sotterraneo che scorresse davanti a loro, a un livello più alto. L’oscurità era totale, ma non era difficile seguire quel liscio canale di pietra.

Sim disse: «Quella lì davanti, non è luce?»

«Si», annui Harker, «una specie di fosforescenza. Non mi piace quel fiume lì davanti a noi. Potrebbe bloccarci».

Avanzarono in silenzio. La luminiscenza si fece via via più intensa, l’aria più umida. Chiazze di licheni fosforescenti comparvero sulle pareti, luccicando come fiochi gioielli in un caleidoscopio di colori malaticci. Il ruggito dell’acqua si era fatto assordante. Vi capitarono davanti all’improvviso. L’acqua scorreva di traverso alla galleria, in un ampio canale scavato in profondità nella roccia, cosicché il suo livello era sceso al di sotto dell’antico letto, lasciando asciutta la galleria. Era un ampio fiume, lento e maestoso. I licheni ornavano il soffitto e ie pareti, riflettendosi in opachi luccichii sulla superficie dell’acqua.

Sopra le loro teste s’innalzava un nero camino attraverso la roccia, e la corrente d’aria fresca scendeva da li, quasi con la forza d’un uragano, ma la maggior parte di essa si dissipava nella galleria del fiume. Harker giudicò che dovesse esserci una formazione di rupi, in superficie, che convogliava il vento verso il basso, come una sorta di sifone. Quel camino nella roccia era del tutto inaccessibile.

Harker disse: «Credo che dovremo risalire il corso del fiume». La roccia era abbastanza erosa da render possibile la cosa, mostrando ampie sporgenze a tutti i livelli.

McLaren obbiettó: «E se questo fiume non venisse dalla superficie? Se sgorgasse da una fonte sotterranea?»

«Rischierai il tuo collo», ribatté Harker. «Su, vieni».

S’incamminarono. Dopo un po’, facendo capriole come focene nell’acqua nera, le creature dorate passarono nuotando, videro gli uomini e sempre nuotando tornarono indietro.

Non erano molto grandi. Fra tutte, la più grande aveva le dimensioni di un bambino di dodici anni. Il loro corpo era antropoide, ma adattato al nuoto con lucide membrane. Irradiavano una luminosità dorata, fosforescenti come i licheni, i loro occhi erano neri e senza palpebre, quasi un’unica, immensa pupilla. I loro volti erano incredibili. Seppur vagamente, ricordarono ad Harker le bocche di leone che crescevano sui prati in estate: teste e volti dei nuotatori erano identici, coperti di petali grondanti d’acqua che parevano dotati di movimenti indipendenti, come se fossero organi sensori e non soltanto decorazioni.

Harker esclamò: «Perbacco, cosa sono?»

«Sembrano fiori», disse McLaren.

«Assomigliano di più a dei pesci», osservò il negro.

Harker rise. «Scommetto che sono tutte e due le cose insieme. Scommetto che sono pianni , e anfibi per giunta». I coloni avevano abbreviato l’espressione piante-animali in piantani , e infine in pianni. «Ho visto creature, nelle paludi, non molto diverse da queste. Ma… caspita, guardateli: sembrano umani!»

«Hanno una forma quasi umana», fece McLaren, rabbrividendo, «e… vorrei che non ci guardassero così!»

Sim replicò: «Finché si limitano a guardarci, non ho intenzione di preoccuparmi…»

Ma non si limitarono a questo. Cominciarono a stringersi intorno agli uomini, nuotando controcorrente senza nessuno sforzo. Alcuni di loro cominciarono ad arrampicarsi fuori dell’acqua, su una bassa sporgenza. Erano agili e graziosi. C’era qualcosa di sgradevolmente infantile in loro. Erano quindici o venti, e ricordavano ad Harker una banda di giovani discoli: soltanto che lo scherzo, nell’insieme, dava una strana, inquietante sensazione di malignità senz’anima.

Harker fece strada ai compagni accelerando il passo sulla banchina rocciosa. Aveva estratto il pugnale e stringeva la corta lancia nella destra.

L’aspetto generale del fiume cambiò. Il letto si ampliò e in alto, davanti a loro, Harker vide che la galleria si allargava in un’ampia cavità in ombra, con l’acqua che vi formava un lago oscuro, riversandosi lentamente fuori da un basso e largo labbro roccioso. Qui altre di quelle strane creature fosforescenti, simili a bambini, stavano giocando. Subito si unirono ai loro compagni, serrando ancor più dappresso i tre uomini.

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